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Giovani fino alla Croce

Il recente Sinodo sulla Sinodalità in più passaggi si è occupato del coinvolgimento dei giovani nella vita della Chiesa. Rimangono attuali alcune criticità, già evidenziate da Papa Francesco: “I giovani non vogliono essere intrattenuti, ma coinvolti […] Non sono il futuro, sono l’adesso di Dio” (Christus vivit, nn. 64–72). Gli stessi Vescovi osservano, nel documento finale del Sinodo: “Ascoltare i giovani vuol dire mettersi in discussione, riconoscere che molte delle loro domande sono rivolte a una Chiesa che percepiscono come distante, talvolta giudicante o poco significativa per la loro vita” (n. 16). E ancora: “Per una Chiesa sinodale è essenziale coinvolgere i giovani nei processi decisionali e nelle pratiche pastorali, riconoscendo i loro carismi e le loro competenze” (n. 17).

Il 2025 si è aperto così con il Seminario di studio “Giovani e Liturgia”, che ha riunito a Roma la Commissione Episcopale per la Liturgia, la Consulta dell’Ufficio Liturgico Nazionale e quella del Servizio Nazionale per la Pastorale Giovanile. Centro delle due giornate è stato l’intervento della professoressa Rita Bichi, che ha presentato il Rapporto Giovani 2024 dell’Istituto Toniolo, dove è descritto l’approccio delle nuove generazioni all’esperienza religiosa, con più di qualche accenno alla loro scarsa partecipazione alla Messa domenicale. Ai primi di aprile l’Università Pontificia Salesiana è tornata sull’argomento in una giornata di studio dal titolo: “Giovani, Bibbia e Liturgia. Esplorazioni Pastorali”. L’intento era di poter offrire prospettive pastorali innovative, nella speranza di attrarre le nuove generazioni alla vita liturgica, accogliendo con più disponibilità i loro linguaggi. ​

Eppure emerge anche un altro genere di sensibilità giovanile: ragazzi che guardano con gratitudine addirittura a quel “senso di costrizione” che il rigore del rito, fatto di norme da rispettare, suscita. Uno studente di Fisica ventiduenne del nostro Ateneo racconta così il suo amore per una Liturgia celebrata senza aggiustamenti, come il Concilio Vaticano II l’ha affidata alla Chiesa: è quasi “il sollievo di dover fare altro da ciò che la nostra spontaneità vorrebbe”.

La pensa allo stesso modo un diciannovenne che frequenta il Conservatorio ed è uno dei gregorianisti della Schola cantorum della Cattedrale di Padova. Ha invitato vari compagni e compagne di studi, suoi coetanei, a entrare nel coro diretto dal Maestro Alessio Randon, e adesso si trovano il martedì sera per le prove insieme agli altri membri esperti della Schola. Imparano il canto liturgico per eccellenza, il gregoriano, ma non solo: li abbiamo ascoltati nell’Elevazione musicale di Pasqua dedicata all’esigente polifonia cinquecentesca di Palestrina e de Victoria.

E se c’è addirittura, tra i loro amici, chi prega il Signore di fargli la grazia di consentirgli l’ingresso nella Certosa di Serra San Bruno, per una vita tutta consegnata alla lode di Dio, sull’altro fronte continuano a gridare i banchi vuoti delle Messe domenicali. Sarebbe imprudente non volerli ascoltare e non impegnarsi a tentare di porvi rimedio. Eppure, forse, la risposta che da decenni si è azzardata, costringendo la Liturgia ad assumere in modo a volte forzoso i linguaggi “dei giovani”, non è l’unica possibile (anche perché oggi la moda delle chitarre elettriche è superata dal ringhio dei testi minacciosi della trap). La formula che il Concilio Vaticano II ha coniato, chiedendo che la Messa sia un capolavoro di nobiltà e semplicità – “i riti splendano per nobile semplicità” (Sacrosanctum Concilium n. 34) –, deve mantenere la propria tensione, senza sacrificare né l’uno né l’altro dei due estremi. Solo così ci si potrà concentrare sullo “splendore”, da far irrompere nel mondo in tutta la sua potenza, che certo risulta quasi violenta per occhi abituati alla penombra. L’Evangelista Giovanni ci ha già insegnato quali sono i rischi: la tragica fragilità per cui “gli uomini amarono più le tenebre che la luce”. C’è un infantilismo dell’anima (accusato sempre, nella Bibbia, dai profeti) che porta le creature ad accontentarsi degli adescamenti del mondo. Ma i giovani non sono bambinetti. Papa Francesco, in Christus vivit, raccomandava che si permettesse loro di fare nella Chiesa esperienze forti, incarnate, comunitarie. Con il corredo delle loro energie al massimo dell’intensità, i ragazzi e le ragazze sono i più potenzialmente adatti a correre, in compagnia dei santi, fino al punto più alto in cui splende la gloria di Dio: la Croce.

Anna Valerio

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Fede, dottrina cattolica e poesia

Immediatamente dopo il “miracolo eucaristico di Bolsena” del 1263, Papa Urbano IV incaricò san Tommaso d’Aquino di comporre per la solennità del Corpus Domini alcuni inni eucaristici, tra i quali la sequenza Lauda Sion Salvatorem, la cui sezione più nota è l’Ecce Panis angelorum. Il testo latino unisce fede, retta dottrina cattolica e arte poetica, fino a prendere fuoco quando il Dottore angelico si slancia nella raccomandazione: “Quantum potes, tantum aude:/ quia maior omni laude,/ nec laudare sufficis” (“Quanto puoi, tanto osa, poiché [il Signore] è più grande di ogni lode e non si è mai in grado di lodarlo abbastanza”). Tommaso chiede che impieghiamo tutto l’ardore di cui siamo capaci nel rendere grazie a un Dio che continua a piantare nella nostra carne la Gerusalemme del cielo, la Sion della salvezza, donandoci il suo Corpo sacrificato e glorioso da accogliere nel nostro corpo mortale.

L’Eucaristia splende davanti agli occhi del santo, che desidera liberare tutti i credenti dalla cecità, dall’ignavia, dalla tiepidezza, dalla tentazione di servire due padroni: il Creatore dell’universo e le pretese dell’egoismo. È il momento di rallegrarsi, di esultare nella pienezza della fede, perché la vanità delle vanità cede il passo alla verità: “Vetustatem novitas,/ umbram fugat veritas,/ noctem lux eliminat” (“La novità mette in fuga le cose vecchie, la verità le ombre, la luce elimina la notte”). Finalmente sul volto anziano e amaro di Qohelet, profeta della “sublime ironia della polvere”, può disegnarsi il sorriso del buon raccolto, la meraviglia di una novità proprio nuova.

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Liturgia, “luogo” di ascolto del Dio che chiama tutti a sé

Dio chiama tutti a sé, «i giovani e le fanciulle, i vecchi insieme ai bambini» (Sal 148,12). Parla al cuore di ogni uomo e donna, lì dove si trova, e desidera la sua felicità e quanto di più bello, buono, grande e nobile si possa pensare. Questo la Chiesa chiama “salvezza”: una vita orientata al Dio che si spera un giorno di guardare faccia a faccia, così come egli è (cfr. 1Gv 3,2).

L’essere umano ha bisogno di vivere questo rapporto in una concretezza adatta alla propria corporeità; infatti Dio ci è venuto incontro nella storia di Israele e, pienamente, nella vita e nell’opera di Gesù di Nazareth, suo Figlio. Ogniqualvolta ci raduniamo per compiere ciò che ci orienta alla salvezza, egli si fa presente, perché ha promesso di essere con noi tutti i giorni sino alla fine del mondo (cfr. Mt 28,20). Ecco l’opera della Liturgia, che diviene la via di accesso, la soglia da varcare per arrivare al Padre (cfr. Gv 10,1ss). Ma essa è anche discrimine, distinzione tra le nostre attività quotidiane e ciò che facciamo per rispondere alla chiamata di Dio. Celebrare i misteri della fede è uno “stare fra”: siamo nel mondo e allo stesso tempo siamo “rapiti” e trasportati in una dimensione nella quale i gesti e le parole orchestrano un’azione fuori dal comune e, sotto queste sembianze rituali, significano e manifestano colui che si lascia appena intravedere: Gesù Cristo, che dona la sua vita perché la riceviamo in abbondanza. C’è quindi un’eccedenza di cose e di azioni, di parole e di gesti che segnano la separazione tra l’esistenza ordinaria e il tempo dell’incontro con Dio, anche se il tramite resta la materialità di questo mondo e la nostra carnalità, trasfigurata.

Non è strano vedere come la gioventù, specie nella fascia giovane-adulta, riscopra in modo molto radicale questo bisogno di Dio. Non di rado accade che, quando si fa verità e ci si azzarda a frenare l’inerzia, ci si chieda: dove sto andando? A che scopo? Ed è nella Liturgia che riconosciamo di poterci porre in ascolto del Dio che chiama tutti a sé, più intimo dell’intimo del nostro cuore (cfr. Agostino, Le confessioni III, 6-11).

 

Juan Diego Andrade
Facoltà Teologica del Triveneto (Padova)
laureando in Teologia

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È il luogo segreto della sapienza

Al numero 103 dell’enciclica Dilexit nos, Papa Francesco fa un omaggio alla figura più radiosa di credente: “Agostino scrive che Giovanni, l’amato, quando nell’ultima Cena chinò il capo sul petto di Gesù, si accostò al luogo segreto della sapienza. Non siamo di fronte a una semplice contemplazione intellettuale di una verità teologica. San Girolamo spiegava che una persona capace di contemplazione «non gode della bellezza del ruscello d’acqua, ma beve l’acqua viva del costato del Signore».” Il fanciullo Giovanni non sta parlando con Gesù come il giovane ricco, fermo davanti a lui nella presunzione di un confronto dialettico paritario. L’amore lo costringe a cercare un misterioso contatto, una calda confidenza, pura come il rannicchiarsi di un bimbo sul petto della madre.   

Nel paragrafo immediatamente precedente, Papa Francesco aveva richiamato l’interpretazione patristica della ferita nel fianco di Gesù come sorgente dei sacramenti: “I Padri della Chiesa, soprattutto dell’Asia Minore, hanno menzionato la ferita nel costato di Gesù come origine dell’acqua dello Spirito: della Parola, della sua grazia e dei sacramenti che la comunicano”. I Santi Segni della Chiesa non sono un’escogitazione pedagogica ma pulsazioni del Cuore stesso del Signore. La sua trafittura li ha riversati sull’umanità, e per mezzo di essi assaporiamo la comunione con Cristo quasi percependo – con l’udito, con la vista, con il tatto, con il gusto, con l’odorato – il delicato palpitare del suo petto.

Soprattutto nell’adorazione eucaristica (cui il Santo Padre fa riferimento al paragrafo 85), quando la fede e l’amore ci conquistano, non udiamo forse quella pulsazione, non vediamo il ritmico alzarsi e abbassarsi del suo costato, non percepiamo la verità di quel calore, non riusciamo perfino a gustarlo, non ne sentiamo il profumo?

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L’instancabile suo Amore

 

«Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). In queste parole, pronunciate da Gesù alla vigilia della sua morte, riecheggia la grande promessa custodita dalla compagnia umana e sacramentale della Chiesa: l’amicizia di Cristo, il legame eterno che Cristo stesso desidera stabilire con noi.

Il cammino che accompagna a vivere il compito del ministero straordinario della Comunione prende, nel nome e nel metodo, la forma del servizio, per essere occasione per contemplare la presenza vivente di Gesù, il suo amore instancabile che non teme di farsi piccolo in una particola e di affidarsi alle nostre misere mani per raggiungere i fratelli infermi e tutti coloro che, fragili nel corpo, attendono quel bacio eterno che trascende e nel contempo abbraccia la nostra natura umana.

Da pochi mesi ho potuto muovere i primi passi nella via di questo ministero e, con stupore e gratitudine, riconosco come tale servizio stia divenendo opportunità privilegiata non solo per donare la propria persona a Cristo (affinché tutto di noi possa essere conformato alla sua presenza vivente), ma per stare con lui ammirando il suo dono gratuito al mondo, l’amore con cui lui desidera raggiungere ogni creatura. Si può comprendere allora come la vera gioia e l’autentica pace risiedano in questa esperienza: nell’essere resi parte dell’amore con cui Gesù ama il mondo.

La prima domenica in cui ho portato la Comunione a una sorella inferma, compivo a piedi il breve tragitto dalla Chiesa alla sua abitazione pensando al dono ineffabile della Comunione stessa: a come, attraverso la Particola, il cuore di Gesù si offre per compenetrare il nostro stesso cuore; in fondo è questo l’unico Amore che ci salva, rendendo possibile il nostro cammino attraverso le vie, alle volte impervie e dolorose, della nostra esistenza. Poi, quando ho incontrato la sorella a me donata, e ho sollevato per la prima volta la Particola, lei ha sussultato e i suoi occhi sono diventati lucidi, commossi: lei era cosciente del dono di Cristo e attendeva tutto da questo. A quel punto, ho avuto io stessa un sobbalzo e mi sono chiesta: io, oggi, per cosa mi commuovo? Mi rendo conto che Cristo si fa carne per entrare nella mia carne, per essere un tutt’uno con me oltre ogni possibilità umana? Mi rendo conto che mi viene dato tutto perché lui stesso si dona al mio cuore, alla mia persona, perché io possa essere salvata dalla sua presenza in me? In quel momento ho intuito questo: non portiamo la Comunione per fare qualcosa per Gesù (certo, per gratitudine cerchiamo di dare gratuitamente ciò che gratuitamente abbiamo ricevuto); portiamo la Comunione per contemplare il mistero di Cristo che incontra gli uomini, per contemplarlo nel suo essere per noi, per stare ai piedi della sua croce, il vertice del suo dono d’amore, con lui. Si potrebbe forse affermare che servire non è fare, ma lasciare a Dio la possibilità di rendersi più familiare a noi nell’amicizia, e incontrare gli altri uomini riconoscendoli come oggetto di questo stesso Amore.

Si può riconoscere, poi, che questo rapporto privilegiato con la Comunione può aiutare il nostro sguardo a farsi più vero anche nelle minute pieghe delle nostre giornate. Più precisamente, può aiutare la preghiera e il lavoro a cambiare, a crescere, a farsi più essenziale. Alle volte, infatti, mentre lavoro, mi viene in mente questo ministero: il privilegio di essere parte dell’amore con cui Gesù si dona a ogni uomo, uno per uno, così come siamo, senza pretendere nulla in cambio, se non di essere accolto in noi. E così, nei nostri incontri quotidiani – in ogni ambito, anche lavorativo –, possiamo chiedere che la nostra vita, i nostri occhi e il nostro cuore, possano amare Cristo nell’altro, pur nell’inevitabile fragilità della nostra condizione umana, riconoscendo in ogni persona la voce di Cristo che ci chiede di amarlo e di farci servi inutili ma chiamati a donare l’amore immeritatamente ricevuto.

Ecco quindi che questo ministero, immenso e ancora tutto da scoprire, si configura anche come possibilità di una grande educazione a vivere solo contemplando e mendicando la presenza di Gesù dentro tutte le creature. È forse questa, dunque, la grande promessa: sperimentare come Cristo desidera tenerci sempre più vicini alla sua stessa vita, lasciando che sia lui e renderci familiari a sé, suoi amici, ora e per sempre.

Maria Segato – Parrocchia di Altichiero

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“Piccoli” di fronte alle grazie di Dio

Proprio nel mese in cui le preghiere alla Madre di Dio ci portano a lei con l’affetto più caldo, ha senso meditare una considerazione di Romano Guardini: «Non si può vietare a qualcuno di aver più gusto per una devozione privata che per la freddezza aspra dell’ufficio della Messa. Ma egli non può dire che la Liturgia è priva di vita, rigida, poiché egli stesso non riesce ancora a padroneggiare con l’animo queste forme ampie e forti. […] Dobbiamo renderci conto di quanto profondamente siamo ancora radicati nell’individualismo e nel soggettivismo, di quanto siamo disabituati al richiamo delle grandezze e di quanto sia piccola la misura della nostra vita religiosa. Deve risvegliarsi il senso dello stile grande nella preghiera, la volontà di coinvolgere anche in essa la nostra esistenza. Ma la via verso queste mete è la disciplina, la rinuncia a una sentimentalità morbida; un serio lavoro, svolto in obbedienza alla Chiesa, in rapporto al nostro essere e al nostro comportamento religioso». Lo scriveva in Formazione liturgica e intendeva dire la grandezza dell’amore cristiano: esattamente quello che ci vuole “piccoli”, adoranti di fronte alle grazie che Dio ci dona. È un amore che vince l’egoismo, si slancia verso il prossimo, trova pace nell’obbedienza. Guardini lo vedeva minacciato dall’individualismo, che i progressi della tecnica e le correnti filosofiche del tempo rendevano prepotente. Lusingato da un’illusoria autonomia, ripiegato su se stesso, l’uomo perdeva la vocazione a lodare e servire il Signore, smarrendosi in un autocompiacimento tanto accattivante quanto sterile.

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Punto dopo punto teologia e Scrittura prendono forma

Le suore missionarie francescane di Maria hanno cucito un capolavoro dell’arte capace di stare accanto a opere di Bellini e Tintoretto rubando loro la meraviglia. È una pianeta ricamata per san Pio X, esposta in una sala della mostra “La Maddalena e la Croce”, che rimarrà aperta fino al 13 luglio al Museo di Santa Caterina di Treviso.

Ovviamente ai piedi della croce c’è lei, l’apostola degli apostoli, che piange con il viso nascosto tra le mani. Un angelo vestito di violetto regge la scritta “Consummatum est”, mentre il suo compagno raccoglie in un ampio calice le gocce di sangue che escono dalle ferite del Signore. Il Figlio di Dio, caduto nella morte come in un sonno di indicibile tranquillità, è re e centro dell’opera. La catena degli angeli ritaglia una mandorla nell’oro dello sfondo e Gesù è di una bellezza radiosa e mite, il corpo perfettamente obbediente a una logica che è lui stesso e che gli uomini intravvedono solo in mezzo alle nubi dell’inquietudine. Il fiotto che sgorga dal suo costato è pieno di teologia e di Scrittura: una treccia di rosa e di bianco, sangue e acqua, che un altro calice, in mano all’angelo più giovane di tutti, beve per l’eternità.

Punto dopo punto, l’arte fa sì che ogni creatura intorno al Creatore abbia un’emozione leggibile sul viso. La Madre di Dio, in piedi a mani giunte, incapace di lasciarsi distrarre dai dubbi. Giovanni, che già sa contemplare il sangue raccolto nel calice e non più il volto umano del Signore. Il centurione caduto in ginocchio. Le donne impaurite e attratte da quel trionfo davanti a cui il mondo non può che provare imbarazzo. I tre soldatacci che si giocano ai dadi la tunica di Gesù, reliquia che ha custodito il mistero del Dio fatto carne. Il peggiore: il sacerdote che si volta sdegnoso a braccia conserte, come uno che ha liquidato un concorrente neanche degno di essergli messo a paragone.

Un sacro anonimato protegge l’identità delle artiste che hanno ricamato questo capolavoro perché il Santo Padre potesse celebrare degnamente la Liturgia. Per loro ci dev’essere solo il nome di figlie.

Anna Valerio

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Una veste è comune a tutti i ministri

 

Non è tanto opportuno, nell’ambito della Liturgia, usare il termine “paramenti”; troppo forte l’assonanza con la mondana “parata”, il nesso con l’identificabilità di un grado, di un ruolo, con le mostrine, il costume di scena. Per celebrare non si usano “paramenti”, ma vesti, e una è comune a tutti i ministri di qualsiasi grado. Guardiamo l’accolito accanto all’altare: egli indossa l’alba bianca. Il candore di cui si ricopre il ministrante è lo stesso del camice per la santa Messa che porta il Sommo Pontefice, o su cui un diacono aggiunge la stola e la dalmatica, un presbitero la stola e la casula, un vescovo la stola, la casula, la mitria, il pastorale e, se arcivescovo, il pallio. La veste delle vesti, il fondamento di ogni altra, è quella del Battesimo, figura del candore del Risorto. Ecco perché sarebbe indispensabile tornare all’uso del bianco perfetto, abbandonando lanette e morbidi beige, lontani dal nitore della rinascita pasquale, e, al contempo, ricordare che una veste liturgica ha bisogno di essere spiegata ed è il corpo che la spiega. Un presbitero, un diacono, un vescovo sguarniti di una nobile gestualità rendono l’abito muto, inutile.

I ministri, nella Liturgia, si sopravvestono, perché ciò che compiono è escatologico: anticipa, nel segno, la Pasqua nella sua pienezza. Il loro compito è “trattare” con la Pasqua ed è essa stessa a rivestirli di luce. Tra le persone che daranno corpo ai ministeri battesimali, non si dovrà allora mancare di trovare anche chi si prenda cura della sacrestia e faccia in modo che le vesti siano sempre lavate, pulite, mantenute integre, provvedendo a metterle a posto e a cucirle o a farle cucire dove ci sono strappi.

Gianandrea Di Donna

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Symphonia Ecclesiæ: un percorso storico

 

Symphonia Ecclesiæ: un percorso storico

 

«Qui mortem nostram moriendo destruxit, et vitam resurgendo reparavit.
Quapropter, profusis paschalibus gaudiis,
totus in orbe terrarum mundus exsultat.
Sed et supernae virtutes atque angelicae potestates
hymnum gloriae tuae concinunt, sine fine dicentes:
Sanctus, Sanctus, Sanctus…»

(Præfatio paschalis I)

 

 

La Liturgia delle Ore prende le sue mosse come preghiera oraria di tutta la Chiesa e dell’intero popolo di Dio. Già, dopo il periodo sub-apostolico, gli “inni mattutini e vespertini” – come venivano chiamate le Lodi mattutine e il Vespro – divengono, in Oriente e in Occidente, un’istituzione molto popolare seguita ogni giorno da un gran numero di persone. Le celebrazioni erano presiedute, già nell’epoca costantiniana, dal Vescovo, alla presenza di preti, diaconi e laici, facendo largo uso della musica, di una solenne ritualità e con la partecipazione del popolo di Dio attraverso semplici ritornelli durante il canto dei salmi. A. Baumstrak lo definisce ufficio cattedrale, per distinguerlo dall’ufficio monastico che andrà sviluppandosi nei monasteri. La celebrazione delle Ore fu infatti estesa anche alle chiese non cattedrali, soprattutto negli ambienti più raffinati dei monasteri, attraverso un culto più complesso e ricco derivato per “amplificazione” e “arricchimento” da quello episcopale-cattedrale (e non viceversa!). Questa distinzione tra ufficio cattedrale e ufficio monastico si delineò definitivamente dal IV-V secolo e restò immutata fino ai nostri giorni. Alle origini dell’ufficio cattedrale era forte la preoccupazione relativa alla partecipazione dei fedeli e pertanto venivano eseguiti salmi sempre uguali, che potevano essere memorizzati. Le due riunioni fondamentali di preghiera erano al mattino e alla sera. Talvolta, nelle grandi feste, il popolo di Dio era convocato per celebrare delle vigiliæ, spesso nelle feste dei martiri presso le loro tombe. Tali veglie seguivano la preghiera del Vespro, dando solennità al lucernario, il gesto di accendere le lampade o un grande cero al tramonto del sole.

Il Medioevo si caratterizzò per due scelte fondamentali: il passaggio dalla preghiera oraria della Chiesa a una preghiera che viene via via riservata ai monaci o al clero secolare per deputazione. Da ciò deriverà la necessità di redigere un compendio “sintetico” (soprattutto a partire dal basso Medioevo, a Roma, per il clero secolare o curiale) della preghiera delle Ore: un breviarium. Questo processo giungerà fino alla compilazione, dopo il Concilio Tridentino, del Breviarium Romanum. Anche se teoricamente la preghiera quotidiana della Liturgia delle Ore resta preghiera di tutta la Chiesa, nella pratica effettiva la spiritualità la riduce a essere preghiera dei sacerdoti o dei monaci, ciascuno secondo la particolarità proprie. Nonostante i molteplici processi di riforma del Breviarium che seguirono al Tridentino, la situazione rimase tale fino alla riforma liturgica del Concilio Vaticano II, quando l’Ufficio si riappropriò – almeno nel suo statuto teologico – della vocazione di preghiera pubblica e comune della Chiesa tutta.

Oggi vanno tenuti presenti alcuni tratti del Magistero, che affermano la dimensione ecclesiale della Liturgia delle Ore fondandola sull’esercizio del sacerdozio comune dei fedeli.

 

DALLA COSTITUZIONE SULLA SACRA LITURGIA SACROSANCTUM CONCILIUM DEL CONCILIO VATICANO II — CAPITOLO I — II. NECESSITÀ DI PROMUOVERE L’EDUCAZIONE LITURGICA E LA PARTECIPAZIONE ATTIVA

14. È ardente desiderio della madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della liturgia e alla quale il popolo cristiano, « stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo acquistato » (1 Pt 2,9; cfr 2,4-5), ha diritto e dovere in forza del battesimo. A tale piena e attiva partecipazione di tutto il popolo va dedicata una specialissima cura nel quadro della riforma e della promozione della liturgia. Essa infatti è la prima e indispensabile fonte dalla quale i fedeli possono attingere il genuino spirito cristiano, e perciò i pastori d’anime in tutta la loro attività pastorale devono sforzarsi di ottenerla attraverso un’adeguata formazione.

Capitolo IV – L’ufficio divino opera di Cristo e della Chiesa

83. Cristo Gesù, il sommo sacerdote della nuova ed eterna alleanza, prendendo la natura umana, ha introdotto in questo esilio terrestre quell’ inno che viene eternamente cantato nelle dimore celesti Egli unisce a sé tutta l’umanità e se l’associa nell’elevare questo divino canto di lode. Cristo continua ad esercitare questa funzione sacerdotale per mezzo della sua Chiesa, che loda il Signore incessantemente e intercede per la salvezza del mondo non solo con la celebrazione dell’eucaristia, ma anche in altri modi, specialmente recitando l’ufficio divino.

84. Il divino ufficio, secondo la tradizione cristiana, è strutturato in modo da santificare tutto il corso del giorno e della notte per mezzo della lode divina. Quando poi a celebrare debitamente quel mirabile canto di lode sono i sacerdoti o altri a ciò deputati per istituzione della Chiesa, o anche i fedeli che pregano insieme col sacerdote secondo le forme approvate, allora è veramente la voce della sposa che parla allo sposo, anzi è la preghiera che Cristo unito al suo corpo eleva al Padre.

85. Tutti coloro pertanto che recitano questa preghiera adempiono da una parte l’obbligo proprio della Chiesa, e dall’altra partecipano al sommo onore della Sposa di Cristo perché, lodando il Signore, stanno davanti al trono di Dio in nome della madre Chiesa.

La recita comunitaria dell’ufficio divino

99. Poiché l’ufficio divino è la voce della Chiesa, ossia di tutto il corpo mistico che loda pubblicamente Dio, è raccomandabile che i chierici non obbligati al coro, e specialmente i sacerdoti che vivono o che si trovano insieme, recitino in comune almeno qualche parte dell’ufficio divino. Tutti coloro, poi, che recitano l’ufficio, sia in coro sia in comune, compiano il dovere loro affidato il più perfettamente possibile, sia quanto alla devozione interiore, sia quanto alla realizzazione esteriore. È bene inoltre che, secondo l’opportunità, l’ufficio in coro e in comune sia cantato.

La partecipazione dei fedeli all’ufficio divino

100. Procurino i pastori d’anime che, nelle domeniche e feste più solenni, le ore principali, specialmente i vespri, siano celebrate in chiesa con partecipazione comune. Si raccomanda che anche i laici recitino l’ufficio divino o con i sacerdoti, o riuniti tra loro, e anche da soli.

 

DALLA COSTITUZIONE APOSTOLICA LAUDIS CANTICUM DI PAOLO VI PP., CON LA QUALE SI PROMULGA L’UFFICIO DIVINO RINNOVATO A NORMA DEL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II

Come richiedeva la Costituzione Sacrosanctum Concilium, fu tenuto conto delle condizioni in cui si trovano in questo nostro tempo i sacerdoti impegnati in attività pastorali. L’Ufficio è stato disposto e ordinato in modo tale che essendo preghiera di tutto il popolo di Dio, possano prendervi parte non solo i chierici, ma anche i religiosi, anzi gli stessi laici. L’introduzione di svariate forme di celebrazione rende ora la Liturgia delle Ore adattabile a persone di cultura a livelli diversi, dando la possibilità ad ognuno di adeguarla alla propria condizione e vocazione. Rinnovata dunque e restaurata completamente la preghiera della santa Chiesa secondo la sua antichissima tradizione, e tenuto conto delle necessità del nostro tempo, è davvero auspicabile che essa pervada profondamente, ravvivi, guidi ed esprima tutta la preghiera cristiana e alimenti efficacemente la vita spirituale del popolo di Dio. Il libro della Liturgia delle Ore, distribuito nel tempo giusto, la sostiene [la Chiesa], e la favorisce, mentre la stessa celebrazione, soprattutto quando una comunità si raduna a questo scopo, esprime la vera natura della Chiesa orante, e risplende come suo segno meraviglioso. La preghiera cristiana è anzitutto implorazione di tutta la famiglia umana, che Cristo associa a se stesso, nel senso che ognuno partecipa a questa preghiera, che è propria dell’intero corpo. Questa perciò esprime la voce della diletta Sposa di Cristo, i desideri e i voti di tutto il popolo cristiano, le suppliche e le implorazioni per le necessità di tutti gli uomini. Soprattutto la preghiera dei salmi, che senza interruzione accompagna e proclama l’azione di Dio nella storia della salvezza, deve essere compresa con rinnovato amore dal popolo di Dio. Perché sia raggiunto più facilmente questo scopo è necessario che il significato inteso dalla Chiesa quando canta i salmi nella liturgia, sia studiato più assiduamente dal clero e sia comunicato anche ai fedeli mediante opportuna catechesi. La stessa recita dell’Ufficio deve adattarsi, per quanto è possibile, alle necessità di una preghiera viva e personale, poiché, come è previsto in Principi e Norme, si possono scegliere i tempi, i modi e le forme di celebrazione che meglio rispondono alle condizioni spirituali degli oranti. Che, se la preghiera dell’Ufficio divino diviene preghiera personale, più evidenti appariranno anche quei legami che uniscono tra di loro la Liturgia e tutta la vita cristiana. L’intera vita dei fedeli, infatti, attraverso le singole ore del giorno e della notte, è quasi una leitourgia, mediante la quale essi si dedicano in servizio di amore a Dio e agli uomini, aderendo all’azione di Cristo che con la sua dimora tra noi e con l’offerta di se stesso, ha santificato la vita di tutti gli uomini. Questa sublime verità del tutto inerente alla vita cristiana, la Liturgia delle Ore la esprime con evidenza e la conferma in maniera efficace. È per questa ragione che le preghiere delle Ore vengono proposte a tutti i fedeli, anche a coloro che non sono tenuti per legge a recitarle.

DALL’INSITUTIO GENERALIS LITURGIA HORARUM (PRINCIPI E NORME PER LA LITURGIA DELLE ORE) — CAPITOLO I – IMPORTANZA DELLA LITURGIA DELLE ORE O UFFICIO DIVINO NELLA VITA DELLA CHIESA

1. La preghiera pubblica e comune del popolo di Dio è giustamente ritenuta tra i principali compiti della Chiesa. Per questo sin dall’inizio i battezzati «erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nella preghiera» (At 2, 42). Più volte gli Atti degli Apostoli attestano la preghiera unanime della comunità cristiana.

Le testimonianze della Chiesa primitiva attestano che anche i singoli fedeli, in ore determinate, attendevano alla preghiera. In seguito, in varie regioni, si diffuse la consuetudine di destinare tempi particolari alla preghiera comune, come, per esempio, l’ultima ora del giorno, quando si fa sera e si accende la lucerna, oppure la prima ora, quando la notte, al sorgere del sole, volge al termine.

15. Nella Liturgia delle Ore la Chiesa, esercitando l’ufficio sacerdotale del suo Capo, offre a Dio «incessantemente», il sacrificio di lode, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome. Questa preghiera è «la voce della stessa Sposa che parla allo Sposo, anzi è la preghiera che Cristo, unito al suo Corpo, eleva al Padre». «Tutti coloro, pertanto, che compiono questa preghiera, adempiono da una parte l’obbligo proprio della Chiesa e dall’altra partecipano al sommo onore della Sposa di Cristo perché, celebrando le lodi di Dio, stanno dinanzi al suo trono a nome della Madre Chiesa».

Culmine e fonte dell’azione pastorale

18. Coloro che partecipano alla Liturgia delle Ore danno incremento al popolo di Dio in virtù di una misteriosa fecondità apostolica; il lavoro apostolico, infatti, è ordinato «a che tutti, diventati figli di Dio, mediante la fede e il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al sacrificio e alla mensa del Signore». Vivendo in tal modo i fedeli esprimono e manifestano agli altri «il mistero di Cristo e la genuina natura della Chiesa, che ha la caratteristica di essere… visibile, ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina».

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Alla sera ospite è il pianto e al mattino la gioia. Ribellarsi al nostro tempo

 

 

ALLA SERA OSPITE È IL PIANTO E AL MATTINO LA GIOIA
RIBELLARSI AL NOSTRO TEMPO

 

Gianandrea Di Donna

 

Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato,
non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me.
Signore, mio Dio, a te ho gridato e mi hai guarito.
Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi,
mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa.
Cantate inni al Signore, o suoi fedeli,
della sua santità celebrate il ricordo,
perché la sua collera dura un istante,
la sua bontà per tutta la vita.
Alla sera ospite è il pianto
e al mattino la gioia.

Salmo XXIX (XXX), 2-6

 

 

Il tempo reso Liturgia, ovvero celebrare il tempo mentre esso va dispiegandosi, risulta quasi un’assurdità. Per farlo occorre ribellarsi alle molte cose da fare: le mie cose. Chi celebra esce dal mondo ed entra in un ritmo atemporale, in cui formule, riti, canoni e testi rubano tempo al mio tempo, alla mia preghiera, al raccoglimento del mio cuore, alla mia intercessione per il mondo e i fratelli.

La Liturgia delle Ore è un carico, un lavoro che richiede intelligenza teologica e rituale. Impone una sorta di lotta contra psalmos – i poetici, millenari e valorosi canti di Davide, intrisi delle vicende di un popolo o dei drammi del cuore umano –, un’ascensione anagogica lungo le ripide pareti del Salterio. È fissata da un canone rituale, prescritta per introdursi nel fluire delle nostre opere e giorni chiedendo di guadarli fino all’altra invisibile riva del tempo. Risulta certo più semplice l’appello nato dalla mia realtà, da ciò che sono, vedo, sento e vivo, eppure la preghiera – esperienza ardua e scomoda per l’uomo – è la discrepanza tra il mondo e il Regno, tra il nostro essere “di Dio” e il nostro essere “nel mondo” (Gv 17, 14-17); mostra lo scarto tra il sæculum in cui giungiamo, esistiamo e ci muoviamo e ciò in cui crediamo, cui aneliamo e che speriamo.

«In generale l’uomo non prega volentieri. È facile che egli provi, nel pregare, un senso di noia, un imbarazzo, una ripugnanza, una ostilità, addirittura. Qualunque altra cosa gli sembra allora più attraente e più importante. Dice di non aver tempo, di avere altri impegni urgenti, ma appena ha tralasciato di pregare, eccolo mettersi a fare le cose più inutili»[1]. La preghiera è dunque una strada di conversione (μετάνοια). Il tempo consacrato alla Liturgia sospende ogni altra attività per permettere a Dio di compiere la sua salvezza. Esige di essere, appunto, una ribellione, una critica del reale (posto che il mondo, ambivalente, è luogo “dell’amore di Dio”, ma pure “delle tenebre”) per accedere all’Unico reale: Cristo. La Chiesa è davvero “utile” al mondo quando ne è libera (cfr. Sacrosanctum Concilium 10) e si consegna alla Provvidenza. La Liturgia è il nostro sacrificium laudis, in cui offriamo noi stessi (cfr. Eb 10) e le nostre “menti” ribelli allo scandalo della Croce. È tempo immolato a Dio, il tesoro più raro nascosto in un campo, la perla di grande valore (Mt 13, 44-45). In fondo: Ora et labora.

Gesù pretende che la preghiera sia perseverante e insistente (Lc 11, 5-13), libera dalla paura di non essere esauditi (Mc 11, 22-24), mai vanagloriosa e ipocrita (Mc 12, 38-40). I monaci del deserto egiziano recitavano il Salterio senza interruzione per tenere fissa la mente in Dio. L’amante usa mille nomi – anche senza senso – per chiamare l’amato; la mamma si rivolge al suo bambino con i più vari appellativi. E se da una parte non dobbiamo compiacerci dell’abbondanza di parole come i pagani (Mt 6, 7-8), dall’altra è necessario che la preghiera sia un torrente, fluendo senza pause dalle labbra. Così appariva l’interminabile serie di Kyrie, eleison dei cristiani d’Oriente, fiume in piena che generava un’assunzione implicita, inconsapevole della Parola di Dio; come quando si impara una lingua straniera vivendo tra coloro che la parlano. Nella preghiera oraria si sedimenta una specie di inconscio spirituale (il Verbo), che pone nel cuore del discepolo un piccolissimo seme che “germoglia e cresce, come, egli stesso non lo sa” (Mc 4, 27). La Liturgia delle Ore agisce in noi senza che ce ne accorgiamo, diventando una memoria muscolare[2]. Così le dita del musicista trasformano quasi inconsciamente le note in interpretazione, in musica…

Nel momento in cui si prega senza esitazione con le nostre parole umane e pensando di farlo bene, forse si scorda l’anima della preghiera: che è riconoscersi poveri, bisognosi, vuoti. Ciò che diamo a Dio semplicemente ritorna da dove è arrivato. La preghiera liturgica, di contro, ci aiuta a prendere le distanze da noi stessi, ci emancipa dalle consolazioni spirituali narcisistiche, controbilanciando la pur necessaria orazione personale (tu quando vuoi pregare Mt 6, 6). Quando gli Apostoli hanno chiesto al Signore di insegnar loro a pregare, Gesù ha comandato di farlo così (oὕτως Mt 6, 9).

La preghiera non può essere facile. Gli ebrei la designano con il termine abodah, che indica il servizio incondizionato al padrone, tipico dell’uomo che si dedica a Dio, del contadino che lavora[3], della bestia da soma che ara. La Liturgia è detta perciò servitium, Dienst, Holy service, Slujba, Opus Dei. La preghiera liturgica è fatta di fatica fedele: prendete il mio giogo (Mt 11, 29) Essere cristiani significa lavorare intensamente attraverso le prove, il sacrificio, la croce.

Il tempo dell’uomo non è un comodo circulus anni durante il quale i cicli delle stagioni e della vita tornano sempre uguali a se stessi. Se da una parte Qoelet vede che quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà, perché non c’è niente di nuovo sotto il sole e tutte le opere che si realizzano sotto il sole sono vanità e un correre dietro al vento (cfr. Qo 1, 9.14), dall’altra, al termine della sua disincantata e scettica concezione, l’Ecclesiaste approda in un dirompente annuncio: «Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché qui sta tutto l’uomo» (Qo 12, 13). Proprio in questo modo il Verbo di Dio è entrato nella storia, quando, nella pienezza del tempo, si è fatto carne (Gv 1, 14) e ha posto la sua tenda tra le nostre… È entrato, cioè, ponendo un’interruzione al fluire di tutte le cose che come il sole sorgono e tramontano e come il vento girano e vanno e sui loro giri ritornano (cfr. Qo 1, 5-6). L’incarnazione è il canto di Dio che interrompe la nostra monotonia: «Cristo Gesù, il sommo sacerdote della nuova ed eterna alleanza, prendendo la natura umana, ha introdotto in questo esilio terrestre quell’inno che viene eternamente cantato nelle dimore celesti. Egli unisce a sé tutta l’umanità e se l’associa nell’elevare questo divino canto di lode»[4]. L’inno che eternamente echeggia nelle sedi celesti è il canto profuso dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo, è l’immagine dell’eterna relazione delle tre Persone divine, che cantano l’Uno all’Altro la loro stessa vita, l’Amore increato.

Per mezzo della preghiera oraria della Chiesa, l’orazione sacerdotale che Cristo ha pronunciato nella carne mentre entrava nella sua Pasqua (cfr. Gv 17) continua. La Liturgia delle Ore è preghiera fatta attraverso l’unico Mediatore (1 Tm 2, 5), è la voce di Cristo che canta al Padre l’eterno Amen della figliolanza, dell’obbedienza, dell’amore fino alla morte di Croce(cfr. Fil 5, 6-11); partecipa dell’Amore-Spirito dell’Unigenito per l’Ingenerato. Interrompendo il tempo, “Cristo prega per noi, prega in noi ed è pregato da noi[5], e permette alla Chiesa di avere accesso, per mezzo suo, al Padre (cfr. Rm 5, 2). Il canto-amore delle Persone divine è la voce inudibile (“nelle dimore celesti”, intratrinitaria) che il Padre soffia (lo Spirito) al suo Logos e, sacramentalmente, quella udibile (“introdotta in questo esilio terrestre”, extratrinitaria) che il Padre, squarciando i cieli, grida come un rombo mentre si posa dolcemente, in forma di Colomba, sul Figlio. Dentro la molteplicità del tempo dell’uomo, irrompe come un tuono dal cielo la pienezza del tempo voluta da Dio, il “sì” al Padre di Cristo, disposto a scendere fino agli inferi portando con sé il Soffio dello Spirito del Padre e di lui Figlio, Spirito che, come un robustissimo filo rosso d’Amore, lo farà poi risalire fino alla destra del Padre.

L’inno delle dimore celesti diventa, nella storia, la Pasqua: il canto dell’Amore trinitario entrato nel mondo, l’unico che Dio Trinità volesse introdurvi. In questa logica, la Liturgia delle Ore interrompe ogni mio tempo per far sentire il suono di quell’inno ed essere il tempo nuovo dell’Uno. Va ridimensionata (se non superata) l’idea che la Liturgia Horarum sia una nobile intercessione con cui chi la celebra “prega per”. Essa è la memoria sacramentale, vivente e palpitante del Mistero pasquale, con cui riconosciamo come le membra del Corpo mistico di Cristo partecipino al “passaggio” del Figlio-Capo da questo mondo al Padre.

In ragione dell’irruzione per cui le opere e i tempi dell’uomo cedono il passo a Colui che è il Principio e la Fine, l’Alfa e l’Omega, la Liturgia delle Ore realizza la propria virtus simbolica trasfigurando i due cardini cosmici della notte e del giorno. Si può ritenere che le Lodi mattutine e i Vespri siano il centro della celebrazione quotidiana dell’Ufficio[6]. I Vespri coincidono con il tramonto del sole, quando la notte ingoia il giorno e l’ombra della morte si affaccia ai palpiti dell’uomo, tragicamente destinato alla tenebra; il digradare della luce dice la vita che declina, il cosmo che si fa crepuscolo di finitudine e sgomento (basti pensare all’angoscia dei malati, appena è sera). Celebrare il tramonto significa assumere il declino di ogni carne, associandolo – ecco il mistero – all’evento che è l’offerta sacrificale del Signore Gesù, innalzato sulla Croce nell’ora del sacrificio vespertino del Tempio, per essere il vero Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Il canto del Magnificat, una pericope evangelica che ritorna immutabile a ogni Vespro, esprime come “vertice” rituale la memoria quotidiana che la Chiesa fa della nostra redenzione: “Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”. Il cantico della beata Vergine Maria dice l’ora nella quale la Serva del Signore, figura della Chiesa obbediente e credente, si unisce all’immolazione del Servo, entrato nel tramonto della morte per liberare chi giace prigioniero di essa e dei suoi vincoli.

Analogamente, le Lodi mattutine vengono celebrate all’aurora, quando la luce vince la tenebra e riprendono le attività dell’uomo, la natura spande i propri colori e gli animali si levano in cerca di cibo. Al mattino tutto rinasce. Perfino l’animo umano si rassicura e chi soffre ricupera il desiderio di vivere. Lungo la linea luminosa dell’orizzonte, mentre le Mirofore si recavano al sepolcro, Cristo, alzatosi dalla morte e calpestando l’Inferno, si è manifestato come il Risorto. Egli, il Vivente, ha riconsegnato all’uomo la vita nuova. «Bisogna pregare al mattino, per celebrare con la preghiera mattutina la risurrezione del Signore»[7], il quale è “luce vera che illumina ogni uomo” (Gv 1, 9) e “sole di giustizia” (Ml4, 2) che “sorge dall’alto” (Lc 1, 78). Il canto del Benedictus, anch’esso celebrazione di una pericope evangelica, esprime come “vertice” rituale la memoria quotidiana che la Chiesa fa della Risurrezione: “grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge (Oriens ex alto), per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte”. Il cantico di Zaccaria è l’esultanza per la vittoria di Cristo sulle tenebre e sulla morte per mezzo della gloriosa Risurrezione.

Se la Liturgia delle Ore è “scomoda” irruzione della Pasqua, essa deve “scomodare” tutto il popolo di Dio e non è riducibile a una mera deputazione giuridica data ad alcuni[8]. Non si tratta di un dovere estrinseco, ma appartiene all’intima natura di una Sposa “chiamata” alle nozze pasquali dell’Agnello. È quasi una Veglia Pasquale quotidiana: «è un attardarsi con chi si ama, come fanno i ragazzi, quando preferiscono rimanere fuori fino all’alba insieme agli amici piuttosto che assecondare l’urgenza biologica del sonno. Non è poi così lontana dalla logica degli after-hours… L’uomo sfida il tempo, lo perde nelle cose che lo ricreano, quando lo straordinario irrompe nell’ordinario e ci trasforma. L’amore non ha orologio in mano. La Liturgia trabocca di inutilità. Nulla in essa è ‘funzionale a’, ma è tutta fatta di tempi che si dilatano»[9].

 

Vale la pena ribellarsi al nostro tempo.
Se alla sera ospite è il pianto della mia morte, non sono solo: Cristo scende con me negli inferi, perché al mattino io possa cantare la gioia della sua e mia risurrezione.
Se notte è il mondo, il Sangue dell’Agnello brilla di luce.
Una sola cosa devo fare: ribellarmi al mio tempo per celebrare le nozze dell’Agnello.
Alla fine una sola parola mi dà pace: Alleluja.

 

 

[1] R. Guardini, Introduzione alla preghiera, Brescia 19877, 1).

[2] L’antica pratica di leggere pronunciando le parole con le labbra era in connessione con la memoria visiva della parola scritta, quella uditiva della parola ascoltata, quella muscolare della parola pronunciata. Cfr. B. Stock, “Lectio divina” e “lectio spiritualis”: la Scrittura come pratica contemplativa nel Medioevo, in «Lettere italiane», n. 2, 2000, 169-183. «Leggere un testo e impararlo a memoria nel senso più forte di questo atto, cioè con tutto il proprio essere: con il corpo poiché la bocca lo pronuncia, con la memoria che lo fissa, con l’intelligenza che ne comprende il senso, con la volontà che desidera metterlo in pratica» J. Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio, Sansoni, Firenze 1965, 94.

[3] L’espressione “culto” deriva da colere, coltivare.

[4] Sacrosanctum Concilium, 83.

[5] Agostino, Commento al Salmo LXXXV,1; CCL 39,1176.

[6] «Le Lodi come preghiera del mattino e i Vespri come preghiera della sera, che, secondo la venerabile tradizione di tutta la Chiesa, sono il duplice cardine dell’Ufficio quotidiano, devono essere ritenute le Ore principali e come tali celebrate» (Sacrosanctum Concilium 89).

[7] Cipriano, De oratione dominica, 35: PL 4, 561.

[8] Per cui l’obbligo canonico da intendersi come præceptus paschalis e non come garanzia d’intercessione.

[9] G. Di Donna, La Veglia Pasquale e gli After-Hours. Considerazioni sul rito cristiano, Valore Italiano Editore, Roma 2022, 91.

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