Alla sera ospite è il pianto e al mattino la gioia. Ribellarsi al nostro tempo

 

 

ALLA SERA OSPITE È IL PIANTO E AL MATTINO LA GIOIA
RIBELLARSI AL NOSTRO TEMPO

 

Gianandrea Di Donna

 

Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato,
non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me.
Signore, mio Dio, a te ho gridato e mi hai guarito.
Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi,
mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa.
Cantate inni al Signore, o suoi fedeli,
della sua santità celebrate il ricordo,
perché la sua collera dura un istante,
la sua bontà per tutta la vita.
Alla sera ospite è il pianto
e al mattino la gioia.

Salmo XXIX (XXX), 2-6

 

 

Il tempo reso Liturgia, ovvero celebrare il tempo mentre esso va dispiegandosi, risulta quasi un’assurdità. Per farlo occorre ribellarsi alle molte cose da fare: le mie cose. Chi celebra esce dal mondo ed entra in un ritmo atemporale, in cui formule, riti, canoni e testi rubano tempo al mio tempo, alla mia preghiera, al raccoglimento del mio cuore, alla mia intercessione per il mondo e i fratelli.

La Liturgia delle Ore è un carico, un lavoro che richiede intelligenza teologica e rituale. Impone una sorta di lotta contra psalmos – i poetici, millenari e valorosi canti di Davide, intrisi delle vicende di un popolo o dei drammi del cuore umano –, un’ascensione anagogica lungo le ripide pareti del Salterio. È fissata da un canone rituale, prescritta per introdursi nel fluire delle nostre opere e giorni chiedendo di guadarli fino all’altra invisibile riva del tempo. Risulta certo più semplice l’appello nato dalla mia realtà, da ciò che sono, vedo, sento e vivo, eppure la preghiera – esperienza ardua e scomoda per l’uomo – è la discrepanza tra il mondo e il Regno, tra il nostro essere “di Dio” e il nostro essere “nel mondo” (Gv 17, 14-17); mostra lo scarto tra il sæculum in cui giungiamo, esistiamo e ci muoviamo e ciò in cui crediamo, cui aneliamo e che speriamo.

«In generale l’uomo non prega volentieri. È facile che egli provi, nel pregare, un senso di noia, un imbarazzo, una ripugnanza, una ostilità, addirittura. Qualunque altra cosa gli sembra allora più attraente e più importante. Dice di non aver tempo, di avere altri impegni urgenti, ma appena ha tralasciato di pregare, eccolo mettersi a fare le cose più inutili»[1]. La preghiera è dunque una strada di conversione (μετάνοια). Il tempo consacrato alla Liturgia sospende ogni altra attività per permettere a Dio di compiere la sua salvezza. Esige di essere, appunto, una ribellione, una critica del reale (posto che il mondo, ambivalente, è luogo “dell’amore di Dio”, ma pure “delle tenebre”) per accedere all’Unico reale: Cristo. La Chiesa è davvero “utile” al mondo quando ne è libera (cfr. Sacrosanctum Concilium 10) e si consegna alla Provvidenza. La Liturgia è il nostro sacrificium laudis, in cui offriamo noi stessi (cfr. Eb 10) e le nostre “menti” ribelli allo scandalo della Croce. È tempo immolato a Dio, il tesoro più raro nascosto in un campo, la perla di grande valore (Mt 13, 44-45). In fondo: Ora et labora.

Gesù pretende che la preghiera sia perseverante e insistente (Lc 11, 5-13), libera dalla paura di non essere esauditi (Mc 11, 22-24), mai vanagloriosa e ipocrita (Mc 12, 38-40). I monaci del deserto egiziano recitavano il Salterio senza interruzione per tenere fissa la mente in Dio. L’amante usa mille nomi – anche senza senso – per chiamare l’amato; la mamma si rivolge al suo bambino con i più vari appellativi. E se da una parte non dobbiamo compiacerci dell’abbondanza di parole come i pagani (Mt 6, 7-8), dall’altra è necessario che la preghiera sia un torrente, fluendo senza pause dalle labbra. Così appariva l’interminabile serie di Kyrie, eleison dei cristiani d’Oriente, fiume in piena che generava un’assunzione implicita, inconsapevole della Parola di Dio; come quando si impara una lingua straniera vivendo tra coloro che la parlano. Nella preghiera oraria si sedimenta una specie di inconscio spirituale (il Verbo), che pone nel cuore del discepolo un piccolissimo seme che “germoglia e cresce, come, egli stesso non lo sa” (Mc 4, 27). La Liturgia delle Ore agisce in noi senza che ce ne accorgiamo, diventando una memoria muscolare[2]. Così le dita del musicista trasformano quasi inconsciamente le note in interpretazione, in musica…

Nel momento in cui si prega senza esitazione con le nostre parole umane e pensando di farlo bene, forse si scorda l’anima della preghiera: che è riconoscersi poveri, bisognosi, vuoti. Ciò che diamo a Dio semplicemente ritorna da dove è arrivato. La preghiera liturgica, di contro, ci aiuta a prendere le distanze da noi stessi, ci emancipa dalle consolazioni spirituali narcisistiche, controbilanciando la pur necessaria orazione personale (tu quando vuoi pregare Mt 6, 6). Quando gli Apostoli hanno chiesto al Signore di insegnar loro a pregare, Gesù ha comandato di farlo così (oὕτως Mt 6, 9).

La preghiera non può essere facile. Gli ebrei la designano con il termine abodah, che indica il servizio incondizionato al padrone, tipico dell’uomo che si dedica a Dio, del contadino che lavora[3], della bestia da soma che ara. La Liturgia è detta perciò servitium, Dienst, Holy service, Slujba, Opus Dei. La preghiera liturgica è fatta di fatica fedele: prendete il mio giogo (Mt 11, 29) Essere cristiani significa lavorare intensamente attraverso le prove, il sacrificio, la croce.

Il tempo dell’uomo non è un comodo circulus anni durante il quale i cicli delle stagioni e della vita tornano sempre uguali a se stessi. Se da una parte Qoelet vede che quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà, perché non c’è niente di nuovo sotto il sole e tutte le opere che si realizzano sotto il sole sono vanità e un correre dietro al vento (cfr. Qo 1, 9.14), dall’altra, al termine della sua disincantata e scettica concezione, l’Ecclesiaste approda in un dirompente annuncio: «Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché qui sta tutto l’uomo» (Qo 12, 13). Proprio in questo modo il Verbo di Dio è entrato nella storia, quando, nella pienezza del tempo, si è fatto carne (Gv 1, 14) e ha posto la sua tenda tra le nostre… È entrato, cioè, ponendo un’interruzione al fluire di tutte le cose che come il sole sorgono e tramontano e come il vento girano e vanno e sui loro giri ritornano (cfr. Qo 1, 5-6). L’incarnazione è il canto di Dio che interrompe la nostra monotonia: «Cristo Gesù, il sommo sacerdote della nuova ed eterna alleanza, prendendo la natura umana, ha introdotto in questo esilio terrestre quell’inno che viene eternamente cantato nelle dimore celesti. Egli unisce a sé tutta l’umanità e se l’associa nell’elevare questo divino canto di lode»[4]. L’inno che eternamente echeggia nelle sedi celesti è il canto profuso dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo, è l’immagine dell’eterna relazione delle tre Persone divine, che cantano l’Uno all’Altro la loro stessa vita, l’Amore increato.

Per mezzo della preghiera oraria della Chiesa, l’orazione sacerdotale che Cristo ha pronunciato nella carne mentre entrava nella sua Pasqua (cfr. Gv 17) continua. La Liturgia delle Ore è preghiera fatta attraverso l’unico Mediatore (1 Tm 2, 5), è la voce di Cristo che canta al Padre l’eterno Amen della figliolanza, dell’obbedienza, dell’amore fino alla morte di Croce(cfr. Fil 5, 6-11); partecipa dell’Amore-Spirito dell’Unigenito per l’Ingenerato. Interrompendo il tempo, “Cristo prega per noi, prega in noi ed è pregato da noi[5], e permette alla Chiesa di avere accesso, per mezzo suo, al Padre (cfr. Rm 5, 2). Il canto-amore delle Persone divine è la voce inudibile (“nelle dimore celesti”, intratrinitaria) che il Padre soffia (lo Spirito) al suo Logos e, sacramentalmente, quella udibile (“introdotta in questo esilio terrestre”, extratrinitaria) che il Padre, squarciando i cieli, grida come un rombo mentre si posa dolcemente, in forma di Colomba, sul Figlio. Dentro la molteplicità del tempo dell’uomo, irrompe come un tuono dal cielo la pienezza del tempo voluta da Dio, il “sì” al Padre di Cristo, disposto a scendere fino agli inferi portando con sé il Soffio dello Spirito del Padre e di lui Figlio, Spirito che, come un robustissimo filo rosso d’Amore, lo farà poi risalire fino alla destra del Padre.

L’inno delle dimore celesti diventa, nella storia, la Pasqua: il canto dell’Amore trinitario entrato nel mondo, l’unico che Dio Trinità volesse introdurvi. In questa logica, la Liturgia delle Ore interrompe ogni mio tempo per far sentire il suono di quell’inno ed essere il tempo nuovo dell’Uno. Va ridimensionata (se non superata) l’idea che la Liturgia Horarum sia una nobile intercessione con cui chi la celebra “prega per”. Essa è la memoria sacramentale, vivente e palpitante del Mistero pasquale, con cui riconosciamo come le membra del Corpo mistico di Cristo partecipino al “passaggio” del Figlio-Capo da questo mondo al Padre.

In ragione dell’irruzione per cui le opere e i tempi dell’uomo cedono il passo a Colui che è il Principio e la Fine, l’Alfa e l’Omega, la Liturgia delle Ore realizza la propria virtus simbolica trasfigurando i due cardini cosmici della notte e del giorno. Si può ritenere che le Lodi mattutine e i Vespri siano il centro della celebrazione quotidiana dell’Ufficio[6]. I Vespri coincidono con il tramonto del sole, quando la notte ingoia il giorno e l’ombra della morte si affaccia ai palpiti dell’uomo, tragicamente destinato alla tenebra; il digradare della luce dice la vita che declina, il cosmo che si fa crepuscolo di finitudine e sgomento (basti pensare all’angoscia dei malati, appena è sera). Celebrare il tramonto significa assumere il declino di ogni carne, associandolo – ecco il mistero – all’evento che è l’offerta sacrificale del Signore Gesù, innalzato sulla Croce nell’ora del sacrificio vespertino del Tempio, per essere il vero Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Il canto del Magnificat, una pericope evangelica che ritorna immutabile a ogni Vespro, esprime come “vertice” rituale la memoria quotidiana che la Chiesa fa della nostra redenzione: “Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”. Il cantico della beata Vergine Maria dice l’ora nella quale la Serva del Signore, figura della Chiesa obbediente e credente, si unisce all’immolazione del Servo, entrato nel tramonto della morte per liberare chi giace prigioniero di essa e dei suoi vincoli.

Analogamente, le Lodi mattutine vengono celebrate all’aurora, quando la luce vince la tenebra e riprendono le attività dell’uomo, la natura spande i propri colori e gli animali si levano in cerca di cibo. Al mattino tutto rinasce. Perfino l’animo umano si rassicura e chi soffre ricupera il desiderio di vivere. Lungo la linea luminosa dell’orizzonte, mentre le Mirofore si recavano al sepolcro, Cristo, alzatosi dalla morte e calpestando l’Inferno, si è manifestato come il Risorto. Egli, il Vivente, ha riconsegnato all’uomo la vita nuova. «Bisogna pregare al mattino, per celebrare con la preghiera mattutina la risurrezione del Signore»[7], il quale è “luce vera che illumina ogni uomo” (Gv 1, 9) e “sole di giustizia” (Ml4, 2) che “sorge dall’alto” (Lc 1, 78). Il canto del Benedictus, anch’esso celebrazione di una pericope evangelica, esprime come “vertice” rituale la memoria quotidiana che la Chiesa fa della Risurrezione: “grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge (Oriens ex alto), per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte”. Il cantico di Zaccaria è l’esultanza per la vittoria di Cristo sulle tenebre e sulla morte per mezzo della gloriosa Risurrezione.

Se la Liturgia delle Ore è “scomoda” irruzione della Pasqua, essa deve “scomodare” tutto il popolo di Dio e non è riducibile a una mera deputazione giuridica data ad alcuni[8]. Non si tratta di un dovere estrinseco, ma appartiene all’intima natura di una Sposa “chiamata” alle nozze pasquali dell’Agnello. È quasi una Veglia Pasquale quotidiana: «è un attardarsi con chi si ama, come fanno i ragazzi, quando preferiscono rimanere fuori fino all’alba insieme agli amici piuttosto che assecondare l’urgenza biologica del sonno. Non è poi così lontana dalla logica degli after-hours… L’uomo sfida il tempo, lo perde nelle cose che lo ricreano, quando lo straordinario irrompe nell’ordinario e ci trasforma. L’amore non ha orologio in mano. La Liturgia trabocca di inutilità. Nulla in essa è ‘funzionale a’, ma è tutta fatta di tempi che si dilatano»[9].

 

Vale la pena ribellarsi al nostro tempo.
Se alla sera ospite è il pianto della mia morte, non sono solo: Cristo scende con me negli inferi, perché al mattino io possa cantare la gioia della sua e mia risurrezione.
Se notte è il mondo, il Sangue dell’Agnello brilla di luce.
Una sola cosa devo fare: ribellarmi al mio tempo per celebrare le nozze dell’Agnello.
Alla fine una sola parola mi dà pace: Alleluja.

 

 

[1] R. Guardini, Introduzione alla preghiera, Brescia 19877, 1).

[2] L’antica pratica di leggere pronunciando le parole con le labbra era in connessione con la memoria visiva della parola scritta, quella uditiva della parola ascoltata, quella muscolare della parola pronunciata. Cfr. B. Stock, “Lectio divina” e “lectio spiritualis”: la Scrittura come pratica contemplativa nel Medioevo, in «Lettere italiane», n. 2, 2000, 169-183. «Leggere un testo e impararlo a memoria nel senso più forte di questo atto, cioè con tutto il proprio essere: con il corpo poiché la bocca lo pronuncia, con la memoria che lo fissa, con l’intelligenza che ne comprende il senso, con la volontà che desidera metterlo in pratica» J. Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio, Sansoni, Firenze 1965, 94.

[3] L’espressione “culto” deriva da colere, coltivare.

[4] Sacrosanctum Concilium, 83.

[5] Agostino, Commento al Salmo LXXXV,1; CCL 39,1176.

[6] «Le Lodi come preghiera del mattino e i Vespri come preghiera della sera, che, secondo la venerabile tradizione di tutta la Chiesa, sono il duplice cardine dell’Ufficio quotidiano, devono essere ritenute le Ore principali e come tali celebrate» (Sacrosanctum Concilium 89).

[7] Cipriano, De oratione dominica, 35: PL 4, 561.

[8] Per cui l’obbligo canonico da intendersi come præceptus paschalis e non come garanzia d’intercessione.

[9] G. Di Donna, La Veglia Pasquale e gli After-Hours. Considerazioni sul rito cristiano, Valore Italiano Editore, Roma 2022, 91.

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