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Symphonia Ecclesiæ: un percorso storico

 

Symphonia Ecclesiæ: un percorso storico

 

«Qui mortem nostram moriendo destruxit, et vitam resurgendo reparavit.
Quapropter, profusis paschalibus gaudiis,
totus in orbe terrarum mundus exsultat.
Sed et supernae virtutes atque angelicae potestates
hymnum gloriae tuae concinunt, sine fine dicentes:
Sanctus, Sanctus, Sanctus…»

(Præfatio paschalis I)

 

 

La Liturgia delle Ore prende le sue mosse come preghiera oraria di tutta la Chiesa e dell’intero popolo di Dio. Già, dopo il periodo sub-apostolico, gli “inni mattutini e vespertini” – come venivano chiamate le Lodi mattutine e il Vespro – divengono, in Oriente e in Occidente, un’istituzione molto popolare seguita ogni giorno da un gran numero di persone. Le celebrazioni erano presiedute, già nell’epoca costantiniana, dal Vescovo, alla presenza di preti, diaconi e laici, facendo largo uso della musica, di una solenne ritualità e con la partecipazione del popolo di Dio attraverso semplici ritornelli durante il canto dei salmi. A. Baumstrak lo definisce ufficio cattedrale, per distinguerlo dall’ufficio monastico che andrà sviluppandosi nei monasteri. La celebrazione delle Ore fu infatti estesa anche alle chiese non cattedrali, soprattutto negli ambienti più raffinati dei monasteri, attraverso un culto più complesso e ricco derivato per “amplificazione” e “arricchimento” da quello episcopale-cattedrale (e non viceversa!). Questa distinzione tra ufficio cattedrale e ufficio monastico si delineò definitivamente dal IV-V secolo e restò immutata fino ai nostri giorni. Alle origini dell’ufficio cattedrale era forte la preoccupazione relativa alla partecipazione dei fedeli e pertanto venivano eseguiti salmi sempre uguali, che potevano essere memorizzati. Le due riunioni fondamentali di preghiera erano al mattino e alla sera. Talvolta, nelle grandi feste, il popolo di Dio era convocato per celebrare delle vigiliæ, spesso nelle feste dei martiri presso le loro tombe. Tali veglie seguivano la preghiera del Vespro, dando solennità al lucernario, il gesto di accendere le lampade o un grande cero al tramonto del sole.

Il Medioevo si caratterizzò per due scelte fondamentali: il passaggio dalla preghiera oraria della Chiesa a una preghiera che viene via via riservata ai monaci o al clero secolare per deputazione. Da ciò deriverà la necessità di redigere un compendio “sintetico” (soprattutto a partire dal basso Medioevo, a Roma, per il clero secolare o curiale) della preghiera delle Ore: un breviarium. Questo processo giungerà fino alla compilazione, dopo il Concilio Tridentino, del Breviarium Romanum. Anche se teoricamente la preghiera quotidiana della Liturgia delle Ore resta preghiera di tutta la Chiesa, nella pratica effettiva la spiritualità la riduce a essere preghiera dei sacerdoti o dei monaci, ciascuno secondo la particolarità proprie. Nonostante i molteplici processi di riforma del Breviarium che seguirono al Tridentino, la situazione rimase tale fino alla riforma liturgica del Concilio Vaticano II, quando l’Ufficio si riappropriò – almeno nel suo statuto teologico – della vocazione di preghiera pubblica e comune della Chiesa tutta.

Oggi vanno tenuti presenti alcuni tratti del Magistero, che affermano la dimensione ecclesiale della Liturgia delle Ore fondandola sull’esercizio del sacerdozio comune dei fedeli.

 

DALLA COSTITUZIONE SULLA SACRA LITURGIA SACROSANCTUM CONCILIUM DEL CONCILIO VATICANO II — CAPITOLO I — II. NECESSITÀ DI PROMUOVERE L’EDUCAZIONE LITURGICA E LA PARTECIPAZIONE ATTIVA

14. È ardente desiderio della madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della liturgia e alla quale il popolo cristiano, « stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo acquistato » (1 Pt 2,9; cfr 2,4-5), ha diritto e dovere in forza del battesimo. A tale piena e attiva partecipazione di tutto il popolo va dedicata una specialissima cura nel quadro della riforma e della promozione della liturgia. Essa infatti è la prima e indispensabile fonte dalla quale i fedeli possono attingere il genuino spirito cristiano, e perciò i pastori d’anime in tutta la loro attività pastorale devono sforzarsi di ottenerla attraverso un’adeguata formazione.

Capitolo IV – L’ufficio divino opera di Cristo e della Chiesa

83. Cristo Gesù, il sommo sacerdote della nuova ed eterna alleanza, prendendo la natura umana, ha introdotto in questo esilio terrestre quell’ inno che viene eternamente cantato nelle dimore celesti Egli unisce a sé tutta l’umanità e se l’associa nell’elevare questo divino canto di lode. Cristo continua ad esercitare questa funzione sacerdotale per mezzo della sua Chiesa, che loda il Signore incessantemente e intercede per la salvezza del mondo non solo con la celebrazione dell’eucaristia, ma anche in altri modi, specialmente recitando l’ufficio divino.

84. Il divino ufficio, secondo la tradizione cristiana, è strutturato in modo da santificare tutto il corso del giorno e della notte per mezzo della lode divina. Quando poi a celebrare debitamente quel mirabile canto di lode sono i sacerdoti o altri a ciò deputati per istituzione della Chiesa, o anche i fedeli che pregano insieme col sacerdote secondo le forme approvate, allora è veramente la voce della sposa che parla allo sposo, anzi è la preghiera che Cristo unito al suo corpo eleva al Padre.

85. Tutti coloro pertanto che recitano questa preghiera adempiono da una parte l’obbligo proprio della Chiesa, e dall’altra partecipano al sommo onore della Sposa di Cristo perché, lodando il Signore, stanno davanti al trono di Dio in nome della madre Chiesa.

La recita comunitaria dell’ufficio divino

99. Poiché l’ufficio divino è la voce della Chiesa, ossia di tutto il corpo mistico che loda pubblicamente Dio, è raccomandabile che i chierici non obbligati al coro, e specialmente i sacerdoti che vivono o che si trovano insieme, recitino in comune almeno qualche parte dell’ufficio divino. Tutti coloro, poi, che recitano l’ufficio, sia in coro sia in comune, compiano il dovere loro affidato il più perfettamente possibile, sia quanto alla devozione interiore, sia quanto alla realizzazione esteriore. È bene inoltre che, secondo l’opportunità, l’ufficio in coro e in comune sia cantato.

La partecipazione dei fedeli all’ufficio divino

100. Procurino i pastori d’anime che, nelle domeniche e feste più solenni, le ore principali, specialmente i vespri, siano celebrate in chiesa con partecipazione comune. Si raccomanda che anche i laici recitino l’ufficio divino o con i sacerdoti, o riuniti tra loro, e anche da soli.

 

DALLA COSTITUZIONE APOSTOLICA LAUDIS CANTICUM DI PAOLO VI PP., CON LA QUALE SI PROMULGA L’UFFICIO DIVINO RINNOVATO A NORMA DEL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II

Come richiedeva la Costituzione Sacrosanctum Concilium, fu tenuto conto delle condizioni in cui si trovano in questo nostro tempo i sacerdoti impegnati in attività pastorali. L’Ufficio è stato disposto e ordinato in modo tale che essendo preghiera di tutto il popolo di Dio, possano prendervi parte non solo i chierici, ma anche i religiosi, anzi gli stessi laici. L’introduzione di svariate forme di celebrazione rende ora la Liturgia delle Ore adattabile a persone di cultura a livelli diversi, dando la possibilità ad ognuno di adeguarla alla propria condizione e vocazione. Rinnovata dunque e restaurata completamente la preghiera della santa Chiesa secondo la sua antichissima tradizione, e tenuto conto delle necessità del nostro tempo, è davvero auspicabile che essa pervada profondamente, ravvivi, guidi ed esprima tutta la preghiera cristiana e alimenti efficacemente la vita spirituale del popolo di Dio. Il libro della Liturgia delle Ore, distribuito nel tempo giusto, la sostiene [la Chiesa], e la favorisce, mentre la stessa celebrazione, soprattutto quando una comunità si raduna a questo scopo, esprime la vera natura della Chiesa orante, e risplende come suo segno meraviglioso. La preghiera cristiana è anzitutto implorazione di tutta la famiglia umana, che Cristo associa a se stesso, nel senso che ognuno partecipa a questa preghiera, che è propria dell’intero corpo. Questa perciò esprime la voce della diletta Sposa di Cristo, i desideri e i voti di tutto il popolo cristiano, le suppliche e le implorazioni per le necessità di tutti gli uomini. Soprattutto la preghiera dei salmi, che senza interruzione accompagna e proclama l’azione di Dio nella storia della salvezza, deve essere compresa con rinnovato amore dal popolo di Dio. Perché sia raggiunto più facilmente questo scopo è necessario che il significato inteso dalla Chiesa quando canta i salmi nella liturgia, sia studiato più assiduamente dal clero e sia comunicato anche ai fedeli mediante opportuna catechesi. La stessa recita dell’Ufficio deve adattarsi, per quanto è possibile, alle necessità di una preghiera viva e personale, poiché, come è previsto in Principi e Norme, si possono scegliere i tempi, i modi e le forme di celebrazione che meglio rispondono alle condizioni spirituali degli oranti. Che, se la preghiera dell’Ufficio divino diviene preghiera personale, più evidenti appariranno anche quei legami che uniscono tra di loro la Liturgia e tutta la vita cristiana. L’intera vita dei fedeli, infatti, attraverso le singole ore del giorno e della notte, è quasi una leitourgia, mediante la quale essi si dedicano in servizio di amore a Dio e agli uomini, aderendo all’azione di Cristo che con la sua dimora tra noi e con l’offerta di se stesso, ha santificato la vita di tutti gli uomini. Questa sublime verità del tutto inerente alla vita cristiana, la Liturgia delle Ore la esprime con evidenza e la conferma in maniera efficace. È per questa ragione che le preghiere delle Ore vengono proposte a tutti i fedeli, anche a coloro che non sono tenuti per legge a recitarle.

DALL’INSITUTIO GENERALIS LITURGIA HORARUM (PRINCIPI E NORME PER LA LITURGIA DELLE ORE) — CAPITOLO I – IMPORTANZA DELLA LITURGIA DELLE ORE O UFFICIO DIVINO NELLA VITA DELLA CHIESA

1. La preghiera pubblica e comune del popolo di Dio è giustamente ritenuta tra i principali compiti della Chiesa. Per questo sin dall’inizio i battezzati «erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nella preghiera» (At 2, 42). Più volte gli Atti degli Apostoli attestano la preghiera unanime della comunità cristiana.

Le testimonianze della Chiesa primitiva attestano che anche i singoli fedeli, in ore determinate, attendevano alla preghiera. In seguito, in varie regioni, si diffuse la consuetudine di destinare tempi particolari alla preghiera comune, come, per esempio, l’ultima ora del giorno, quando si fa sera e si accende la lucerna, oppure la prima ora, quando la notte, al sorgere del sole, volge al termine.

15. Nella Liturgia delle Ore la Chiesa, esercitando l’ufficio sacerdotale del suo Capo, offre a Dio «incessantemente», il sacrificio di lode, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome. Questa preghiera è «la voce della stessa Sposa che parla allo Sposo, anzi è la preghiera che Cristo, unito al suo Corpo, eleva al Padre». «Tutti coloro, pertanto, che compiono questa preghiera, adempiono da una parte l’obbligo proprio della Chiesa e dall’altra partecipano al sommo onore della Sposa di Cristo perché, celebrando le lodi di Dio, stanno dinanzi al suo trono a nome della Madre Chiesa».

Culmine e fonte dell’azione pastorale

18. Coloro che partecipano alla Liturgia delle Ore danno incremento al popolo di Dio in virtù di una misteriosa fecondità apostolica; il lavoro apostolico, infatti, è ordinato «a che tutti, diventati figli di Dio, mediante la fede e il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al sacrificio e alla mensa del Signore». Vivendo in tal modo i fedeli esprimono e manifestano agli altri «il mistero di Cristo e la genuina natura della Chiesa, che ha la caratteristica di essere… visibile, ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina».

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Alla sera ospite è il pianto e al mattino la gioia. Ribellarsi al nostro tempo

 

 

ALLA SERA OSPITE È IL PIANTO E AL MATTINO LA GIOIA
RIBELLARSI AL NOSTRO TEMPO

 

Gianandrea Di Donna

 

Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato,
non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me.
Signore, mio Dio, a te ho gridato e mi hai guarito.
Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi,
mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa.
Cantate inni al Signore, o suoi fedeli,
della sua santità celebrate il ricordo,
perché la sua collera dura un istante,
la sua bontà per tutta la vita.
Alla sera ospite è il pianto
e al mattino la gioia.

Salmo XXIX (XXX), 2-6

 

 

Il tempo reso Liturgia, ovvero celebrare il tempo mentre esso va dispiegandosi, risulta quasi un’assurdità. Per farlo occorre ribellarsi alle molte cose da fare: le mie cose. Chi celebra esce dal mondo ed entra in un ritmo atemporale, in cui formule, riti, canoni e testi rubano tempo al mio tempo, alla mia preghiera, al raccoglimento del mio cuore, alla mia intercessione per il mondo e i fratelli.

La Liturgia delle Ore è un carico, un lavoro che richiede intelligenza teologica e rituale. Impone una sorta di lotta contra psalmos – i poetici, millenari e valorosi canti di Davide, intrisi delle vicende di un popolo o dei drammi del cuore umano –, un’ascensione anagogica lungo le ripide pareti del Salterio. È fissata da un canone rituale, prescritta per introdursi nel fluire delle nostre opere e giorni chiedendo di guadarli fino all’altra invisibile riva del tempo. Risulta certo più semplice l’appello nato dalla mia realtà, da ciò che sono, vedo, sento e vivo, eppure la preghiera – esperienza ardua e scomoda per l’uomo – è la discrepanza tra il mondo e il Regno, tra il nostro essere “di Dio” e il nostro essere “nel mondo” (Gv 17, 14-17); mostra lo scarto tra il sæculum in cui giungiamo, esistiamo e ci muoviamo e ciò in cui crediamo, cui aneliamo e che speriamo.

«In generale l’uomo non prega volentieri. È facile che egli provi, nel pregare, un senso di noia, un imbarazzo, una ripugnanza, una ostilità, addirittura. Qualunque altra cosa gli sembra allora più attraente e più importante. Dice di non aver tempo, di avere altri impegni urgenti, ma appena ha tralasciato di pregare, eccolo mettersi a fare le cose più inutili»[1]. La preghiera è dunque una strada di conversione (μετάνοια). Il tempo consacrato alla Liturgia sospende ogni altra attività per permettere a Dio di compiere la sua salvezza. Esige di essere, appunto, una ribellione, una critica del reale (posto che il mondo, ambivalente, è luogo “dell’amore di Dio”, ma pure “delle tenebre”) per accedere all’Unico reale: Cristo. La Chiesa è davvero “utile” al mondo quando ne è libera (cfr. Sacrosanctum Concilium 10) e si consegna alla Provvidenza. La Liturgia è il nostro sacrificium laudis, in cui offriamo noi stessi (cfr. Eb 10) e le nostre “menti” ribelli allo scandalo della Croce. È tempo immolato a Dio, il tesoro più raro nascosto in un campo, la perla di grande valore (Mt 13, 44-45). In fondo: Ora et labora.

Gesù pretende che la preghiera sia perseverante e insistente (Lc 11, 5-13), libera dalla paura di non essere esauditi (Mc 11, 22-24), mai vanagloriosa e ipocrita (Mc 12, 38-40). I monaci del deserto egiziano recitavano il Salterio senza interruzione per tenere fissa la mente in Dio. L’amante usa mille nomi – anche senza senso – per chiamare l’amato; la mamma si rivolge al suo bambino con i più vari appellativi. E se da una parte non dobbiamo compiacerci dell’abbondanza di parole come i pagani (Mt 6, 7-8), dall’altra è necessario che la preghiera sia un torrente, fluendo senza pause dalle labbra. Così appariva l’interminabile serie di Kyrie, eleison dei cristiani d’Oriente, fiume in piena che generava un’assunzione implicita, inconsapevole della Parola di Dio; come quando si impara una lingua straniera vivendo tra coloro che la parlano. Nella preghiera oraria si sedimenta una specie di inconscio spirituale (il Verbo), che pone nel cuore del discepolo un piccolissimo seme che “germoglia e cresce, come, egli stesso non lo sa” (Mc 4, 27). La Liturgia delle Ore agisce in noi senza che ce ne accorgiamo, diventando una memoria muscolare[2]. Così le dita del musicista trasformano quasi inconsciamente le note in interpretazione, in musica…

Nel momento in cui si prega senza esitazione con le nostre parole umane e pensando di farlo bene, forse si scorda l’anima della preghiera: che è riconoscersi poveri, bisognosi, vuoti. Ciò che diamo a Dio semplicemente ritorna da dove è arrivato. La preghiera liturgica, di contro, ci aiuta a prendere le distanze da noi stessi, ci emancipa dalle consolazioni spirituali narcisistiche, controbilanciando la pur necessaria orazione personale (tu quando vuoi pregare Mt 6, 6). Quando gli Apostoli hanno chiesto al Signore di insegnar loro a pregare, Gesù ha comandato di farlo così (oὕτως Mt 6, 9).

La preghiera non può essere facile. Gli ebrei la designano con il termine abodah, che indica il servizio incondizionato al padrone, tipico dell’uomo che si dedica a Dio, del contadino che lavora[3], della bestia da soma che ara. La Liturgia è detta perciò servitium, Dienst, Holy service, Slujba, Opus Dei. La preghiera liturgica è fatta di fatica fedele: prendete il mio giogo (Mt 11, 29) Essere cristiani significa lavorare intensamente attraverso le prove, il sacrificio, la croce.

Il tempo dell’uomo non è un comodo circulus anni durante il quale i cicli delle stagioni e della vita tornano sempre uguali a se stessi. Se da una parte Qoelet vede che quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà, perché non c’è niente di nuovo sotto il sole e tutte le opere che si realizzano sotto il sole sono vanità e un correre dietro al vento (cfr. Qo 1, 9.14), dall’altra, al termine della sua disincantata e scettica concezione, l’Ecclesiaste approda in un dirompente annuncio: «Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché qui sta tutto l’uomo» (Qo 12, 13). Proprio in questo modo il Verbo di Dio è entrato nella storia, quando, nella pienezza del tempo, si è fatto carne (Gv 1, 14) e ha posto la sua tenda tra le nostre… È entrato, cioè, ponendo un’interruzione al fluire di tutte le cose che come il sole sorgono e tramontano e come il vento girano e vanno e sui loro giri ritornano (cfr. Qo 1, 5-6). L’incarnazione è il canto di Dio che interrompe la nostra monotonia: «Cristo Gesù, il sommo sacerdote della nuova ed eterna alleanza, prendendo la natura umana, ha introdotto in questo esilio terrestre quell’inno che viene eternamente cantato nelle dimore celesti. Egli unisce a sé tutta l’umanità e se l’associa nell’elevare questo divino canto di lode»[4]. L’inno che eternamente echeggia nelle sedi celesti è il canto profuso dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo, è l’immagine dell’eterna relazione delle tre Persone divine, che cantano l’Uno all’Altro la loro stessa vita, l’Amore increato.

Per mezzo della preghiera oraria della Chiesa, l’orazione sacerdotale che Cristo ha pronunciato nella carne mentre entrava nella sua Pasqua (cfr. Gv 17) continua. La Liturgia delle Ore è preghiera fatta attraverso l’unico Mediatore (1 Tm 2, 5), è la voce di Cristo che canta al Padre l’eterno Amen della figliolanza, dell’obbedienza, dell’amore fino alla morte di Croce(cfr. Fil 5, 6-11); partecipa dell’Amore-Spirito dell’Unigenito per l’Ingenerato. Interrompendo il tempo, “Cristo prega per noi, prega in noi ed è pregato da noi[5], e permette alla Chiesa di avere accesso, per mezzo suo, al Padre (cfr. Rm 5, 2). Il canto-amore delle Persone divine è la voce inudibile (“nelle dimore celesti”, intratrinitaria) che il Padre soffia (lo Spirito) al suo Logos e, sacramentalmente, quella udibile (“introdotta in questo esilio terrestre”, extratrinitaria) che il Padre, squarciando i cieli, grida come un rombo mentre si posa dolcemente, in forma di Colomba, sul Figlio. Dentro la molteplicità del tempo dell’uomo, irrompe come un tuono dal cielo la pienezza del tempo voluta da Dio, il “sì” al Padre di Cristo, disposto a scendere fino agli inferi portando con sé il Soffio dello Spirito del Padre e di lui Figlio, Spirito che, come un robustissimo filo rosso d’Amore, lo farà poi risalire fino alla destra del Padre.

L’inno delle dimore celesti diventa, nella storia, la Pasqua: il canto dell’Amore trinitario entrato nel mondo, l’unico che Dio Trinità volesse introdurvi. In questa logica, la Liturgia delle Ore interrompe ogni mio tempo per far sentire il suono di quell’inno ed essere il tempo nuovo dell’Uno. Va ridimensionata (se non superata) l’idea che la Liturgia Horarum sia una nobile intercessione con cui chi la celebra “prega per”. Essa è la memoria sacramentale, vivente e palpitante del Mistero pasquale, con cui riconosciamo come le membra del Corpo mistico di Cristo partecipino al “passaggio” del Figlio-Capo da questo mondo al Padre.

In ragione dell’irruzione per cui le opere e i tempi dell’uomo cedono il passo a Colui che è il Principio e la Fine, l’Alfa e l’Omega, la Liturgia delle Ore realizza la propria virtus simbolica trasfigurando i due cardini cosmici della notte e del giorno. Si può ritenere che le Lodi mattutine e i Vespri siano il centro della celebrazione quotidiana dell’Ufficio[6]. I Vespri coincidono con il tramonto del sole, quando la notte ingoia il giorno e l’ombra della morte si affaccia ai palpiti dell’uomo, tragicamente destinato alla tenebra; il digradare della luce dice la vita che declina, il cosmo che si fa crepuscolo di finitudine e sgomento (basti pensare all’angoscia dei malati, appena è sera). Celebrare il tramonto significa assumere il declino di ogni carne, associandolo – ecco il mistero – all’evento che è l’offerta sacrificale del Signore Gesù, innalzato sulla Croce nell’ora del sacrificio vespertino del Tempio, per essere il vero Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Il canto del Magnificat, una pericope evangelica che ritorna immutabile a ogni Vespro, esprime come “vertice” rituale la memoria quotidiana che la Chiesa fa della nostra redenzione: “Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”. Il cantico della beata Vergine Maria dice l’ora nella quale la Serva del Signore, figura della Chiesa obbediente e credente, si unisce all’immolazione del Servo, entrato nel tramonto della morte per liberare chi giace prigioniero di essa e dei suoi vincoli.

Analogamente, le Lodi mattutine vengono celebrate all’aurora, quando la luce vince la tenebra e riprendono le attività dell’uomo, la natura spande i propri colori e gli animali si levano in cerca di cibo. Al mattino tutto rinasce. Perfino l’animo umano si rassicura e chi soffre ricupera il desiderio di vivere. Lungo la linea luminosa dell’orizzonte, mentre le Mirofore si recavano al sepolcro, Cristo, alzatosi dalla morte e calpestando l’Inferno, si è manifestato come il Risorto. Egli, il Vivente, ha riconsegnato all’uomo la vita nuova. «Bisogna pregare al mattino, per celebrare con la preghiera mattutina la risurrezione del Signore»[7], il quale è “luce vera che illumina ogni uomo” (Gv 1, 9) e “sole di giustizia” (Ml4, 2) che “sorge dall’alto” (Lc 1, 78). Il canto del Benedictus, anch’esso celebrazione di una pericope evangelica, esprime come “vertice” rituale la memoria quotidiana che la Chiesa fa della Risurrezione: “grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge (Oriens ex alto), per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte”. Il cantico di Zaccaria è l’esultanza per la vittoria di Cristo sulle tenebre e sulla morte per mezzo della gloriosa Risurrezione.

Se la Liturgia delle Ore è “scomoda” irruzione della Pasqua, essa deve “scomodare” tutto il popolo di Dio e non è riducibile a una mera deputazione giuridica data ad alcuni[8]. Non si tratta di un dovere estrinseco, ma appartiene all’intima natura di una Sposa “chiamata” alle nozze pasquali dell’Agnello. È quasi una Veglia Pasquale quotidiana: «è un attardarsi con chi si ama, come fanno i ragazzi, quando preferiscono rimanere fuori fino all’alba insieme agli amici piuttosto che assecondare l’urgenza biologica del sonno. Non è poi così lontana dalla logica degli after-hours… L’uomo sfida il tempo, lo perde nelle cose che lo ricreano, quando lo straordinario irrompe nell’ordinario e ci trasforma. L’amore non ha orologio in mano. La Liturgia trabocca di inutilità. Nulla in essa è ‘funzionale a’, ma è tutta fatta di tempi che si dilatano»[9].

 

Vale la pena ribellarsi al nostro tempo.
Se alla sera ospite è il pianto della mia morte, non sono solo: Cristo scende con me negli inferi, perché al mattino io possa cantare la gioia della sua e mia risurrezione.
Se notte è il mondo, il Sangue dell’Agnello brilla di luce.
Una sola cosa devo fare: ribellarmi al mio tempo per celebrare le nozze dell’Agnello.
Alla fine una sola parola mi dà pace: Alleluja.

 

 

[1] R. Guardini, Introduzione alla preghiera, Brescia 19877, 1).

[2] L’antica pratica di leggere pronunciando le parole con le labbra era in connessione con la memoria visiva della parola scritta, quella uditiva della parola ascoltata, quella muscolare della parola pronunciata. Cfr. B. Stock, “Lectio divina” e “lectio spiritualis”: la Scrittura come pratica contemplativa nel Medioevo, in «Lettere italiane», n. 2, 2000, 169-183. «Leggere un testo e impararlo a memoria nel senso più forte di questo atto, cioè con tutto il proprio essere: con il corpo poiché la bocca lo pronuncia, con la memoria che lo fissa, con l’intelligenza che ne comprende il senso, con la volontà che desidera metterlo in pratica» J. Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio, Sansoni, Firenze 1965, 94.

[3] L’espressione “culto” deriva da colere, coltivare.

[4] Sacrosanctum Concilium, 83.

[5] Agostino, Commento al Salmo LXXXV,1; CCL 39,1176.

[6] «Le Lodi come preghiera del mattino e i Vespri come preghiera della sera, che, secondo la venerabile tradizione di tutta la Chiesa, sono il duplice cardine dell’Ufficio quotidiano, devono essere ritenute le Ore principali e come tali celebrate» (Sacrosanctum Concilium 89).

[7] Cipriano, De oratione dominica, 35: PL 4, 561.

[8] Per cui l’obbligo canonico da intendersi come præceptus paschalis e non come garanzia d’intercessione.

[9] G. Di Donna, La Veglia Pasquale e gli After-Hours. Considerazioni sul rito cristiano, Valore Italiano Editore, Roma 2022, 91.

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