La solennità del Natale del nostro Signore Gesù Cristo comincia a essere celebrata in un’epoca relativamente tarda. Fino al VI secolo, non esisteva una struttura di anno liturgico come la pensiamo oggi, scandita dai due grandi misteri che sono quasi i fuochi di un’ellisse: la Pasqua del Signore e la sua manifestazione nella carne, il Natale. La Chiesa dell’epoca sub apostolica si limitava a celebrare la Pasqua settimanale, la “domenica” (il “giorno del Risorto”), e solo in seguito si è data una Pasqua annuale, nella domenica che seguiva al plenilunio di primavera. Sarà nelle zone del nord Europa che comincerà a concentrarsi una particolare ritualità attorno al Solstizio d’inverno, il momento in cui le ore di luce, dopo il lento declino, riprendono a crescere. Nella città di Roma, i pagani erano soliti festeggiare, tra il 24 e il 25 dicembre, il Dies natalis Solis Invicti, il cosiddetto “Natale del Sole Invincibile”. I cristiani trasfigurano questa festa nel segno dell’“Oriens ex alto”, Cristo, e cominciano a fare memoria della sua incarnazione.
Il ciclo delle celebrazioni della Pasqua settimanale si arricchisce così, prima, della Pasqua annuale, con la sua Veglia, grembo dei sacramenti dell’Iniziazione cristiana, e poi, qualche secolo più tardi, del Natale, nel Dies natalis Solis Invicti. Intorno a queste due solennità si articola un tempo che le prepara e le segue. Nel caso della Pasqua, è la Quaresima, culminante nel Triduum Sanctum, cui succede il Tempo di Pasqua come un unico giorno dove l’alleluja non si spegne. Per il Natale, l’Adventus, periodo di attesa trepidante della salvezza, connotato da un sapore nordico; una sorta di Quaresima invernale, nata perché i vescovi non riuscivano più a smaltire il numero di catecumeni che dovevano essere battezzati nella notte di Pasqua e avevano cominciato a fissare, oltre alla “Madre di tutte le veglie”, un’altra data nel corso dell’anno in cui celebrare i Battesimi, e questa era spesso l’Epifania.
Se la solennità di Pasqua è preceduta da un periodo di preparazione immediata nella cosiddetta Settimana Santa, anche la memoria annuale dell’incarnazione del Signore viene anticipata pedagogicamente da un ciclo di otto giorni, che prende il nome di Ottavario e non ha niente a che fare con la tradizione popolare della novena di Natale. Le “ferie maggiori” dell’Ottavario si caratterizzano per la presenza, nella celebrazione dei Vespri, di antifone dai testi teologicamente impegnativi, che cominciano tutti con il vocativo “O”: O Sapientia (il 17 dicembre), O Adonai (il 18), O Radix Iesse (il 19), O Clavis David (il 20), O Oriens (il 21), O Rex gentium (il 22), O Emmanuel (il 23). Predisposte per l’ora vespertina, l’ora del farsi carne del Verbo di Dio, vengono cantate tre volte: all’inizio e alla fine del Magnificat e – da dopo la riforma del Concilio Vaticano II –, seppur con un testo più essenziale, come canto al Vangelo. Dal punto di vista musicale sono molto simili tra loro, con alcuni aggiustamenti sulla base del testo, perché il canto gregoriano nasce a servizio delle parole e si piega volentieri a modificare, seppur di poco, l’andamento melodico.
Il Padre Guéranger – che rifondò, nell’Ottocento, la grande abbazia di Solesmes in Francia dopo la Rivoluzione francese – ebbe a dire che le antifone “O” sono “il midollo di tutto l’Avvento”. Nel contesto dell’Ottavario, si possono riconoscere le sue tre dimensioni tipiche, che guardano al Cristo che verrà alla fine dei tempi – nella prima parte; al Cristo che è venuto nella carne – nella seconda; e infine al Cristo che continua a venire.
La grandezza dei testi delle antifone maggiori e della musica che li trasfigura di assoluta bellezza ci permette di stare di fronte al mistero della rivelazione di Dio nella carne del Verbo. Hanno questa ampiezza, questa ricchezza, questa ‘gravità’, perciò le melodie vanno intonate molto basse, perché la Liturgia sta dicendo: “Attenzione, tu sei davanti a Gesù bambino, ti prepari a incontrarlo, l’infante deposto nella mangiatoia. Eppure lui è la Sapienza che esce dalla bocca dell’Altissimo.” Chiamare il “Puer natus” (come lo apostroferà l’introito del mattino di Natale) “O Sapienza” ci invita a tenere un atteggiamento tutt’altro che folcloristico, da stelline e zampogne. A considerare che, dopo aver ascoltato, a mezzanotte, il suggestivo e caro racconto dei pastori del Vangelo di Luca, nella Messa del giorno la Chiesa ci fa ascoltare il canto altissimo del prologo di Giovanni: “E il Verbo si fece carne”.
Gianandrea Di Donna