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Cura della formazione musicale

L’Istituto diocesano di canto e musica per la Liturgia – San Pio X apre le sue porte per un Open day il 12 ottobre, dalle 10 alle 12 e dalle 14.30 alle 16. La scuola della Chiesa di Padova, che cura la formazione musicale di presbiteri, diaconi e laici, ha sede in centro città, nei locali della casa canonica di Sant’Andrea. La sua proposta più strutturata è quella di un programma scandito su tre anni, con il conseguimento di un diploma finale. Ma se qui si può puntare a diventare musicisti o cantori, salmisti o direttori di coro a servizio delle celebrazioni, c’è spazio anche per chi desidera semplicemente studiare il pianoforte oppure l’organo, la tecnica vocale, la storia della musica, il canto gregoriano. Ed è una possibilità estesa a tutte le età. È stato avviato da qualche stagione un corso per Pueri cantores, rivolto ai bambini dai 6 agli 11 anni, dove in un clima di grande naturalezza i piccoli imparano a cantare dalle antifone mariane all’Ave verum, a Veni creator Spiritus. Riserva di speranza e prova di quanto il giogo evangelico possa essere soave.

Non mancano corsi brevi e stage, dedicati al canto del celebrante o del preconio pasquale o della gemma che è in ogni messa il salmo responsoriale, e vengono proposte anche esercitazioni pratiche per cori parrocchiali. Tutti i docenti hanno competenze scientifiche che si uniscono alla sensibilità di chi da anni è al servizio del celebrare cristiano.

Per informazioni si può contattare la segretaria Fiorenza Moschin al 349/5733543, o il vicedirettore M° Francesco Cavagna al 3337855822. Oppure scrivere una mail a: istitutomusicaliturgia@diocesipadova.it.


Che i piccoli cantino

Dopo il Sinodo diocesano, molta energia andrà impiegata per la formazione dei laici che si porranno a servizio della Chiesa nella modalità dei ministeri battesimali (senza escludere, in un futuro prossimo, quelli istituiti), e la musica sacra è tra gli ambiti che chiedono di essere presi in considerazione più sistematicamente. In Italia ci si deve confrontare con una situazione problematica. “I bambini non hanno un’adeguata familiarità con la musica”, osserva don Vincenzo De Gregorio, che per trentun anni è stato direttore di conservatori e ha incontrato migliaia di studenti, fino a ricoprire l’incarico, a Roma, di preside del Pontificio Istituto di Musica Sacra. “Nei paesi germanofoni, la tradizione del canto è cifra comune. In Italia, invece, i piccoli crescono senza avere la minima esperienza del cantare in coro o di cosa sia il sound di un’orchestra. Claudio Abbado, Riccardo Muti, ritenendo la Chiesa cattolica colpevole di aver dilapidato i suoi tesori, sbagliavano bersaglio. Il primo problema è l’educazione del cittadino italiano, che diventa adulto senza conoscere nemmeno i rudimenti della musica. E così anche il nostro clero accusa gravi deficit a causa di una pedagogia scolastica carente.”

Don Vincenzo non pensa la Chiesa ex cathedra. Se la ritrova intorno nel caldo Duomo di San Gennaro a Napoli, dove suona l’organo ogni domenica. Qui ascolta la voce del popolo di Dio, sempre meno musicale, mentre immagina alcuni tentativi da intraprendere. “Come offriamo ai ragazzi, sulla traccia del catechismo nazionale, itinerari di formazione ai sacramenti dell’Iniziazione cristiana, non dovremmo far mancare una pedagogia affidata in modo significativo alla musica. È necessario predisporre per loro un repertorio condiviso di canti, con un’attenzione soprattutto per i salmi.”

Con quel “per loro”, don Vincenzo non pensa a canzoncine di intonazione infantile. “Ai bambini della prima comunione non ho mai avuto remore a insegnare la messa in gregoriano, che in particolare nelle composizioni più antiche ha melodie facilissime. Ai piccoli si possono proporre alcuni brani tradizionali e i canti dell’ordinario della messa: il Santo, l’Agnello di Dio, un Gloria, i Kyrie più semplici. E poi le antifone mariane, gli inni allo Spirito Santo, qualche versetto salmodico. Poche cose, ma che le imparino tutti.”

I canti di Davide sono la grande risorsa da riscoprire. “Basta mettere insieme dieci salmi, non di più, perché i bambini possano cantare all’unisono da un punto all’altro dell’Italia. Le parole dei salmi abbracciano l’intero percorso della vita, dalla nascita alla morte. Sono adeguati a un’opera penitenziale, a chiedere perdono, ad accompagnare un defunto, a esaltare lo splendore dell’uomo, a consolare…”

Il rischio – don Vincenzo lo ha ben presente – è che in simili operazioni manchi la compattezza ‘ecclesiale’. “Sono iniziative che vanno orientate in primis a generare una comunione che si è persa nel momento in cui si è voluto dare spazio a una creatività senza barriere, per cui chiunque poteva inventarsi compositore di musica sacra. Mentre la Conferenza episcopale francese chiede che un canto da eseguire in chiesa passi per il filtro di una commissione, in Italia questo non è mai accaduto. E così ognuno ha potuto creare, dire, suonare e cantare quello che voleva. Lo vediamo in maniera eclatante nel caso dei cosiddetti ‘movimenti’.”

Un rimedio contro la dispersione delle energie sarebbe la cura dell’esemplarità, ma il contesto attuale non la favorisce. “Oggi i giovani in formazione nei seminari non hanno più l’esperienza della Settimana Santa vissuta nelle cattedrali, il modello della grande musica per le celebrazioni del Triduo pasquale. Vanno nelle parrocchie, giustamente, a fare esperienza, ma bisogna tenere conto che, così, l’esemplarità viene meno e ognuno poi si mette a fare quello che vuole.” Un tempo, invece, il canto creava un’immediata armonia. T’adoriam, ostia divina era l’inno eucaristico di tutti, perché tutti in Italia lo conoscevano. E lo stesso valeva per numerosi canti della devozione popolare, mariani o dei santi patroni. Sarebbe bene offrire ancora questo stile di comunione.” Don Vincenzo suggerisce allora di “attingere alla tradizione come alla devozione, o pensare anche a un bando, per arrivare a mettere definitivamente a punto un repertorio di canti comune a tutta Italia.”

Anna Valerio


Tutto il bello di animare la liturgia

La prima edizione della rassegna “Cori Parrocchiali Patavini”, tenutasi presso la Chiesa del SS. Salvatore a Camin, ha coinvolto undici cori parrocchiali della città di Padova e di alcune parrocchie vicine ed è stata un’occasione per notare quanti sono gli appassionati volontari che prestano servizio nella Liturgia. In media ogni coro era composto da venticinque/trenta elementi: in totale circa trecentocinquanta persone (tra cui parecchi giovani), che si sentono coinvolte nel rendere belle e partecipate le celebrazioni, dando nel concreto un esempio di splendida “ministerialità” laicale.

Imparare a cantare armoniosamente significa prima di tutto sapersi ascoltare l’un l’altro. Il coro, quindi, come l’orchestra, è espressione della dinamica più sana su cui può fondarsi la società: la conoscenza e il rispetto del prossimo, attraverso l’ascolto reciproco e la generosità nel mettere le proprie risorse migliori al servizio degli altri.

Straordinaria, nel corso dei tre giorni, è stata la varietà e la ricchezza dei canti e delle modalità di animazione delle Liturgie, anche se si corre il rischio che un’eccessiva varietà di autori e melodie si disperda in mille forme, piacevoli e accattivanti, ma non in grado di fare storia. Molti brani hanno un successo effimero e non durano più di una stagione.

Le nostre Liturgie normalmente partono con un canto d’inizio e terminano con un canto d’invio, celebrando una Parola e una Presenza che ci spinge quasi a vivere melodiosamente… Non è raro che io mi ritrovi, insieme ai coristi, a canticchiare anche fuori dalle celebrazioni motivi di canti liturgici, tanto certe musiche hanno la forza di plasmare la nostra stessa vita.

Don Ezio Sinigaglia


Sono risorto, o Padre, e sono sempre con te. Alleluia.

Celebrando l’eucaristia, noi siamo al Calvario, al sepolcro, al profumo delle mirrofore, alle prime luci dell’alba – in senso sacramentale.

 

Tre giorni. Che sono uno. Che non sono giorni. Che non sono tempo. Che non sono spazio. Rivestiti di tempo e di spazio. Ogni istante della storia ha ricevuto nel Verbo incarnato, crocifisso, sepolto e risorto il suo punto di compimento: è stato calamitato, assunto, raccolto, sollevato, preso in braccio dalla madre, come un bimbo.

Cammini in una campagna a undici chilometri da Gerusalemme, nel primo secolo, e cosa vedi? Sterpaglia e caprette. E cammini. E commenti quello che è successo. E mentre vai a casa a cena, un’onda altissima ti spazza via, ti sconquassa. Quell’onda ha la barba e gli occhi e le mani e la voce. Un uomo, come te. Non è facile tentare di percepire la relazione del molteplice con l’Uno, mettere insieme il viottolo di Emmaus e il cuore che brucia.

Questo fa la liturgia. È tutta umana e tutta divina. È tutta simbolo e tutta eschaton (il fine del tempo, ciò per cui sono stati voluti e pensati i giorni dell’uomo). È un oceano che non uccide, non schiaccia, non soverchia.

Pagina 170 del Messale Romano. Cosa succede, durante la Veglia pasquale, quando hai in mano lo stilo e incidi il cero bianco e lo chiami “Alfa e Omega” e ficchi i grani di incenso nella cera, come i chiodi della croce? Stiamo celebrando l’irruzione dell’eschaton nel tempo. Nei segni santi della nostra fede, si realizza l’epifania della ricapitolazione in Cristo di tutte le cose, il mistero pasquale dell’offerta di se stesso del Figlio di Dio, che ha portato la vita divina dentro la storia e, offrendola una volta per tutte, l’ha resa vita del mondo: ciò per cui il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo ci hanno pensati prima della creazione. L’onda dell’oceano, fattasi bambino, entra nello spazio e nel tempo per strappare la nostra carne alla caducità e condurla alla gloria della risurrezione, nel cuore di Dio stesso, nel suo compimento. Questo è il disegno divino, prima dei secoli – come si canta, ai Vespri, con gli inni delle lettere di Paolo agli Efesini e ai Colossesi. Da Adamo all’Arcangelo Michele, che suonerà la tromba nell’ultimo giorno, ogni istante va, corre, è innestato nella Pasqua. Per questa ragione il Signore è il soggetto primo dell’agire liturgico. Celebrando l’eucaristia, noi siamo al Calvario, al sepolcro, al profumo delle mirrofore, alle prime luci dell’alba – non in senso scenografico, misticoide, pietistico, spirituale, ma sacramentale. Tutto ciò che precede Cristo e segue Cristo si sta precipitando verso la pienezza, che è la Pasqua. La cosa più stupida per un credente sarebbe fare dell’incarnazione del Verbo lo spartiacque della storia.

La Pasqua – basta leggere la teologia patristica della creazione – non è un rimedio. Il Risorto è il “primogenito dei risorti”, cioè è ‘genito’ come Risorto. Non è un prodotto apologetico contro Pilato, Anna e Caifa e il Sinedrio, da cui le trombe di Haendel, che sembrano voler dire: aveva ragione Gesù. Lui è il primogenito perché la risurrezione è nel cuore di Dio ab aeterno. Lo si intuisce ascoltando l’antifona del mattino di Pasqua, Resurrexi. “Sono risorto”. Non: “è risorto”. È il Figlio che parla. Non è la Chiesa che annuncia: aveva ragione, alleluia.

 “Sono risorto, o Padre, e sono sempre con te. Alleluia. Hai posto su di me la tua mano. Alleluia. È stupenda per me la tua saggezza. Alleluia, alleluia.”

La vita delle Persone divine non è un forziere. Non è una prerogativa. Non è l’onnipotenza di Giove. Non è la trascendenza del Motore immobile. È il movimento con il quale la vita divina crea il mondo; ma lo abita, creandolo. In tutte le religioni esiste un principio di creazione, però tra la creazione e il creatore non c’è relazione. È proprio il limite, lo spazio tra il creatore e la creatura, l’affermazione di quella religione. Infatti una divinità distaccata, nella sua trascendenza assoluta, può imporre obblighi morali da rispettare. Invece i precetti del Signore “fanno gioire il cuore”: sono cioè vita della creatura. Non sono il limite. Abbiamo già il traghettatore, che è Dio stesso.

L’eucaristia è lui, il Regno di Dio è lui. È vicino, davanti ai nostri occhi. E questa pienezza è ciò verso cui tutto tende; ogni carne, ogni secondo, ogni parola, ogni peccato, ogni amore, ogni malattia. Tutto, reso uno, in Cristo.

Gianandrea Di Donna