Tre giorni. Che sono uno. Che non sono giorni. Che non sono tempo. Che non sono spazio. Rivestiti di tempo e di spazio. Ogni istante della storia ha ricevuto nel Verbo incarnato, crocifisso, sepolto e risorto il suo punto di compimento: è stato calamitato, assunto, raccolto, sollevato, preso in braccio dalla madre, come un bimbo.
Cammini in una campagna a undici chilometri da Gerusalemme, nel primo secolo, e cosa vedi? Sterpaglia e caprette. E cammini. E commenti quello che è successo. E mentre vai a casa a cena, un’onda altissima ti spazza via, ti sconquassa. Quell’onda ha la barba e gli occhi e le mani e la voce. Un uomo, come te. Non è facile tentare di percepire la relazione del molteplice con l’Uno, mettere insieme il viottolo di Emmaus e il cuore che brucia.
Questo fa la liturgia. È tutta umana e tutta divina. È tutta simbolo e tutta eschaton (il fine del tempo, ciò per cui sono stati voluti e pensati i giorni dell’uomo). È un oceano che non uccide, non schiaccia, non soverchia.
Pagina 170 del Messale Romano. Cosa succede, durante la Veglia pasquale, quando hai in mano lo stilo e incidi il cero bianco e lo chiami “Alfa e Omega” e ficchi i grani di incenso nella cera, come i chiodi della croce? Stiamo celebrando l’irruzione dell’eschaton nel tempo. Nei segni santi della nostra fede, si realizza l’epifania della ricapitolazione in Cristo di tutte le cose, il mistero pasquale dell’offerta di se stesso del Figlio di Dio, che ha portato la vita divina dentro la storia e, offrendola una volta per tutte, l’ha resa vita del mondo: ciò per cui il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo ci hanno pensati prima della creazione. L’onda dell’oceano, fattasi bambino, entra nello spazio e nel tempo per strappare la nostra carne alla caducità e condurla alla gloria della risurrezione, nel cuore di Dio stesso, nel suo compimento. Questo è il disegno divino, prima dei secoli – come si canta, ai Vespri, con gli inni delle lettere di Paolo agli Efesini e ai Colossesi. Da Adamo all’Arcangelo Michele, che suonerà la tromba nell’ultimo giorno, ogni istante va, corre, è innestato nella Pasqua. Per questa ragione il Signore è il soggetto primo dell’agire liturgico. Celebrando l’eucaristia, noi siamo al Calvario, al sepolcro, al profumo delle mirrofore, alle prime luci dell’alba – non in senso scenografico, misticoide, pietistico, spirituale, ma sacramentale. Tutto ciò che precede Cristo e segue Cristo si sta precipitando verso la pienezza, che è la Pasqua. La cosa più stupida per un credente sarebbe fare dell’incarnazione del Verbo lo spartiacque della storia.
La Pasqua – basta leggere la teologia patristica della creazione – non è un rimedio. Il Risorto è il “primogenito dei risorti”, cioè è ‘genito’ come Risorto. Non è un prodotto apologetico contro Pilato, Anna e Caifa e il Sinedrio, da cui le trombe di Haendel, che sembrano voler dire: aveva ragione Gesù. Lui è il primogenito perché la risurrezione è nel cuore di Dio ab aeterno. Lo si intuisce ascoltando l’antifona del mattino di Pasqua, Resurrexi. “Sono risorto”. Non: “è risorto”. È il Figlio che parla. Non è la Chiesa che annuncia: aveva ragione, alleluia.
“Sono risorto, o Padre, e sono sempre con te. Alleluia. Hai posto su di me la tua mano. Alleluia. È stupenda per me la tua saggezza. Alleluia, alleluia.”
La vita delle Persone divine non è un forziere. Non è una prerogativa. Non è l’onnipotenza di Giove. Non è la trascendenza del Motore immobile. È il movimento con il quale la vita divina crea il mondo; ma lo abita, creandolo. In tutte le religioni esiste un principio di creazione, però tra la creazione e il creatore non c’è relazione. È proprio il limite, lo spazio tra il creatore e la creatura, l’affermazione di quella religione. Infatti una divinità distaccata, nella sua trascendenza assoluta, può imporre obblighi morali da rispettare. Invece i precetti del Signore “fanno gioire il cuore”: sono cioè vita della creatura. Non sono il limite. Abbiamo già il traghettatore, che è Dio stesso.
L’eucaristia è lui, il Regno di Dio è lui. È vicino, davanti ai nostri occhi. E questa pienezza è ciò verso cui tutto tende; ogni carne, ogni secondo, ogni parola, ogni peccato, ogni amore, ogni malattia. Tutto, reso uno, in Cristo.
Gianandrea Di Donna