Archivi della categoria: Speciale Liturgia

Giovani fino alla Croce

Il recente Sinodo sulla Sinodalità in più passaggi si è occupato del coinvolgimento dei giovani nella vita della Chiesa. Rimangono attuali alcune criticità, già evidenziate da Papa Francesco: “I giovani non vogliono essere intrattenuti, ma coinvolti […] Non sono il futuro, sono l’adesso di Dio” (Christus vivit, nn. 64–72). Gli stessi Vescovi osservano, nel documento finale del Sinodo: “Ascoltare i giovani vuol dire mettersi in discussione, riconoscere che molte delle loro domande sono rivolte a una Chiesa che percepiscono come distante, talvolta giudicante o poco significativa per la loro vita” (n. 16). E ancora: “Per una Chiesa sinodale è essenziale coinvolgere i giovani nei processi decisionali e nelle pratiche pastorali, riconoscendo i loro carismi e le loro competenze” (n. 17).

Il 2025 si è aperto così con il Seminario di studio “Giovani e Liturgia”, che ha riunito a Roma la Commissione Episcopale per la Liturgia, la Consulta dell’Ufficio Liturgico Nazionale e quella del Servizio Nazionale per la Pastorale Giovanile. Centro delle due giornate è stato l’intervento della professoressa Rita Bichi, che ha presentato il Rapporto Giovani 2024 dell’Istituto Toniolo, dove è descritto l’approccio delle nuove generazioni all’esperienza religiosa, con più di qualche accenno alla loro scarsa partecipazione alla Messa domenicale. Ai primi di aprile l’Università Pontificia Salesiana è tornata sull’argomento in una giornata di studio dal titolo: “Giovani, Bibbia e Liturgia. Esplorazioni Pastorali”. L’intento era di poter offrire prospettive pastorali innovative, nella speranza di attrarre le nuove generazioni alla vita liturgica, accogliendo con più disponibilità i loro linguaggi. ​

Eppure emerge anche un altro genere di sensibilità giovanile: ragazzi che guardano con gratitudine addirittura a quel “senso di costrizione” che il rigore del rito, fatto di norme da rispettare, suscita. Uno studente di Fisica ventiduenne del nostro Ateneo racconta così il suo amore per una Liturgia celebrata senza aggiustamenti, come il Concilio Vaticano II l’ha affidata alla Chiesa: è quasi “il sollievo di dover fare altro da ciò che la nostra spontaneità vorrebbe”.

La pensa allo stesso modo un diciannovenne che frequenta il Conservatorio ed è uno dei gregorianisti della Schola cantorum della Cattedrale di Padova. Ha invitato vari compagni e compagne di studi, suoi coetanei, a entrare nel coro diretto dal Maestro Alessio Randon, e adesso si trovano il martedì sera per le prove insieme agli altri membri esperti della Schola. Imparano il canto liturgico per eccellenza, il gregoriano, ma non solo: li abbiamo ascoltati nell’Elevazione musicale di Pasqua dedicata all’esigente polifonia cinquecentesca di Palestrina e de Victoria.

E se c’è addirittura, tra i loro amici, chi prega il Signore di fargli la grazia di consentirgli l’ingresso nella Certosa di Serra San Bruno, per una vita tutta consegnata alla lode di Dio, sull’altro fronte continuano a gridare i banchi vuoti delle Messe domenicali. Sarebbe imprudente non volerli ascoltare e non impegnarsi a tentare di porvi rimedio. Eppure, forse, la risposta che da decenni si è azzardata, costringendo la Liturgia ad assumere in modo a volte forzoso i linguaggi “dei giovani”, non è l’unica possibile (anche perché oggi la moda delle chitarre elettriche è superata dal ringhio dei testi minacciosi della trap). La formula che il Concilio Vaticano II ha coniato, chiedendo che la Messa sia un capolavoro di nobiltà e semplicità – “i riti splendano per nobile semplicità” (Sacrosanctum Concilium n. 34) –, deve mantenere la propria tensione, senza sacrificare né l’uno né l’altro dei due estremi. Solo così ci si potrà concentrare sullo “splendore”, da far irrompere nel mondo in tutta la sua potenza, che certo risulta quasi violenta per occhi abituati alla penombra. L’Evangelista Giovanni ci ha già insegnato quali sono i rischi: la tragica fragilità per cui “gli uomini amarono più le tenebre che la luce”. C’è un infantilismo dell’anima (accusato sempre, nella Bibbia, dai profeti) che porta le creature ad accontentarsi degli adescamenti del mondo. Ma i giovani non sono bambinetti. Papa Francesco, in Christus vivit, raccomandava che si permettesse loro di fare nella Chiesa esperienze forti, incarnate, comunitarie. Con il corredo delle loro energie al massimo dell’intensità, i ragazzi e le ragazze sono i più potenzialmente adatti a correre, in compagnia dei santi, fino al punto più alto in cui splende la gloria di Dio: la Croce.

Anna Valerio

condividi su

Fede, dottrina cattolica e poesia

Immediatamente dopo il “miracolo eucaristico di Bolsena” del 1263, Papa Urbano IV incaricò san Tommaso d’Aquino di comporre per la solennità del Corpus Domini alcuni inni eucaristici, tra i quali la sequenza Lauda Sion Salvatorem, la cui sezione più nota è l’Ecce Panis angelorum. Il testo latino unisce fede, retta dottrina cattolica e arte poetica, fino a prendere fuoco quando il Dottore angelico si slancia nella raccomandazione: “Quantum potes, tantum aude:/ quia maior omni laude,/ nec laudare sufficis” (“Quanto puoi, tanto osa, poiché [il Signore] è più grande di ogni lode e non si è mai in grado di lodarlo abbastanza”). Tommaso chiede che impieghiamo tutto l’ardore di cui siamo capaci nel rendere grazie a un Dio che continua a piantare nella nostra carne la Gerusalemme del cielo, la Sion della salvezza, donandoci il suo Corpo sacrificato e glorioso da accogliere nel nostro corpo mortale.

L’Eucaristia splende davanti agli occhi del santo, che desidera liberare tutti i credenti dalla cecità, dall’ignavia, dalla tiepidezza, dalla tentazione di servire due padroni: il Creatore dell’universo e le pretese dell’egoismo. È il momento di rallegrarsi, di esultare nella pienezza della fede, perché la vanità delle vanità cede il passo alla verità: “Vetustatem novitas,/ umbram fugat veritas,/ noctem lux eliminat” (“La novità mette in fuga le cose vecchie, la verità le ombre, la luce elimina la notte”). Finalmente sul volto anziano e amaro di Qohelet, profeta della “sublime ironia della polvere”, può disegnarsi il sorriso del buon raccolto, la meraviglia di una novità proprio nuova.

condividi su

Liturgia, “luogo” di ascolto del Dio che chiama tutti a sé

Dio chiama tutti a sé, «i giovani e le fanciulle, i vecchi insieme ai bambini» (Sal 148,12). Parla al cuore di ogni uomo e donna, lì dove si trova, e desidera la sua felicità e quanto di più bello, buono, grande e nobile si possa pensare. Questo la Chiesa chiama “salvezza”: una vita orientata al Dio che si spera un giorno di guardare faccia a faccia, così come egli è (cfr. 1Gv 3,2).

L’essere umano ha bisogno di vivere questo rapporto in una concretezza adatta alla propria corporeità; infatti Dio ci è venuto incontro nella storia di Israele e, pienamente, nella vita e nell’opera di Gesù di Nazareth, suo Figlio. Ogniqualvolta ci raduniamo per compiere ciò che ci orienta alla salvezza, egli si fa presente, perché ha promesso di essere con noi tutti i giorni sino alla fine del mondo (cfr. Mt 28,20). Ecco l’opera della Liturgia, che diviene la via di accesso, la soglia da varcare per arrivare al Padre (cfr. Gv 10,1ss). Ma essa è anche discrimine, distinzione tra le nostre attività quotidiane e ciò che facciamo per rispondere alla chiamata di Dio. Celebrare i misteri della fede è uno “stare fra”: siamo nel mondo e allo stesso tempo siamo “rapiti” e trasportati in una dimensione nella quale i gesti e le parole orchestrano un’azione fuori dal comune e, sotto queste sembianze rituali, significano e manifestano colui che si lascia appena intravedere: Gesù Cristo, che dona la sua vita perché la riceviamo in abbondanza. C’è quindi un’eccedenza di cose e di azioni, di parole e di gesti che segnano la separazione tra l’esistenza ordinaria e il tempo dell’incontro con Dio, anche se il tramite resta la materialità di questo mondo e la nostra carnalità, trasfigurata.

Non è strano vedere come la gioventù, specie nella fascia giovane-adulta, riscopra in modo molto radicale questo bisogno di Dio. Non di rado accade che, quando si fa verità e ci si azzarda a frenare l’inerzia, ci si chieda: dove sto andando? A che scopo? Ed è nella Liturgia che riconosciamo di poterci porre in ascolto del Dio che chiama tutti a sé, più intimo dell’intimo del nostro cuore (cfr. Agostino, Le confessioni III, 6-11).

 

Juan Diego Andrade
Facoltà Teologica del Triveneto (Padova)
laureando in Teologia

condividi su

È il luogo segreto della sapienza

Al numero 103 dell’enciclica Dilexit nos, Papa Francesco fa un omaggio alla figura più radiosa di credente: “Agostino scrive che Giovanni, l’amato, quando nell’ultima Cena chinò il capo sul petto di Gesù, si accostò al luogo segreto della sapienza. Non siamo di fronte a una semplice contemplazione intellettuale di una verità teologica. San Girolamo spiegava che una persona capace di contemplazione «non gode della bellezza del ruscello d’acqua, ma beve l’acqua viva del costato del Signore».” Il fanciullo Giovanni non sta parlando con Gesù come il giovane ricco, fermo davanti a lui nella presunzione di un confronto dialettico paritario. L’amore lo costringe a cercare un misterioso contatto, una calda confidenza, pura come il rannicchiarsi di un bimbo sul petto della madre.   

Nel paragrafo immediatamente precedente, Papa Francesco aveva richiamato l’interpretazione patristica della ferita nel fianco di Gesù come sorgente dei sacramenti: “I Padri della Chiesa, soprattutto dell’Asia Minore, hanno menzionato la ferita nel costato di Gesù come origine dell’acqua dello Spirito: della Parola, della sua grazia e dei sacramenti che la comunicano”. I Santi Segni della Chiesa non sono un’escogitazione pedagogica ma pulsazioni del Cuore stesso del Signore. La sua trafittura li ha riversati sull’umanità, e per mezzo di essi assaporiamo la comunione con Cristo quasi percependo – con l’udito, con la vista, con il tatto, con il gusto, con l’odorato – il delicato palpitare del suo petto.

Soprattutto nell’adorazione eucaristica (cui il Santo Padre fa riferimento al paragrafo 85), quando la fede e l’amore ci conquistano, non udiamo forse quella pulsazione, non vediamo il ritmico alzarsi e abbassarsi del suo costato, non percepiamo la verità di quel calore, non riusciamo perfino a gustarlo, non ne sentiamo il profumo?

condividi su

L’instancabile suo Amore

 

«Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). In queste parole, pronunciate da Gesù alla vigilia della sua morte, riecheggia la grande promessa custodita dalla compagnia umana e sacramentale della Chiesa: l’amicizia di Cristo, il legame eterno che Cristo stesso desidera stabilire con noi.

Il cammino che accompagna a vivere il compito del ministero straordinario della Comunione prende, nel nome e nel metodo, la forma del servizio, per essere occasione per contemplare la presenza vivente di Gesù, il suo amore instancabile che non teme di farsi piccolo in una particola e di affidarsi alle nostre misere mani per raggiungere i fratelli infermi e tutti coloro che, fragili nel corpo, attendono quel bacio eterno che trascende e nel contempo abbraccia la nostra natura umana.

Da pochi mesi ho potuto muovere i primi passi nella via di questo ministero e, con stupore e gratitudine, riconosco come tale servizio stia divenendo opportunità privilegiata non solo per donare la propria persona a Cristo (affinché tutto di noi possa essere conformato alla sua presenza vivente), ma per stare con lui ammirando il suo dono gratuito al mondo, l’amore con cui lui desidera raggiungere ogni creatura. Si può comprendere allora come la vera gioia e l’autentica pace risiedano in questa esperienza: nell’essere resi parte dell’amore con cui Gesù ama il mondo.

La prima domenica in cui ho portato la Comunione a una sorella inferma, compivo a piedi il breve tragitto dalla Chiesa alla sua abitazione pensando al dono ineffabile della Comunione stessa: a come, attraverso la Particola, il cuore di Gesù si offre per compenetrare il nostro stesso cuore; in fondo è questo l’unico Amore che ci salva, rendendo possibile il nostro cammino attraverso le vie, alle volte impervie e dolorose, della nostra esistenza. Poi, quando ho incontrato la sorella a me donata, e ho sollevato per la prima volta la Particola, lei ha sussultato e i suoi occhi sono diventati lucidi, commossi: lei era cosciente del dono di Cristo e attendeva tutto da questo. A quel punto, ho avuto io stessa un sobbalzo e mi sono chiesta: io, oggi, per cosa mi commuovo? Mi rendo conto che Cristo si fa carne per entrare nella mia carne, per essere un tutt’uno con me oltre ogni possibilità umana? Mi rendo conto che mi viene dato tutto perché lui stesso si dona al mio cuore, alla mia persona, perché io possa essere salvata dalla sua presenza in me? In quel momento ho intuito questo: non portiamo la Comunione per fare qualcosa per Gesù (certo, per gratitudine cerchiamo di dare gratuitamente ciò che gratuitamente abbiamo ricevuto); portiamo la Comunione per contemplare il mistero di Cristo che incontra gli uomini, per contemplarlo nel suo essere per noi, per stare ai piedi della sua croce, il vertice del suo dono d’amore, con lui. Si potrebbe forse affermare che servire non è fare, ma lasciare a Dio la possibilità di rendersi più familiare a noi nell’amicizia, e incontrare gli altri uomini riconoscendoli come oggetto di questo stesso Amore.

Si può riconoscere, poi, che questo rapporto privilegiato con la Comunione può aiutare il nostro sguardo a farsi più vero anche nelle minute pieghe delle nostre giornate. Più precisamente, può aiutare la preghiera e il lavoro a cambiare, a crescere, a farsi più essenziale. Alle volte, infatti, mentre lavoro, mi viene in mente questo ministero: il privilegio di essere parte dell’amore con cui Gesù si dona a ogni uomo, uno per uno, così come siamo, senza pretendere nulla in cambio, se non di essere accolto in noi. E così, nei nostri incontri quotidiani – in ogni ambito, anche lavorativo –, possiamo chiedere che la nostra vita, i nostri occhi e il nostro cuore, possano amare Cristo nell’altro, pur nell’inevitabile fragilità della nostra condizione umana, riconoscendo in ogni persona la voce di Cristo che ci chiede di amarlo e di farci servi inutili ma chiamati a donare l’amore immeritatamente ricevuto.

Ecco quindi che questo ministero, immenso e ancora tutto da scoprire, si configura anche come possibilità di una grande educazione a vivere solo contemplando e mendicando la presenza di Gesù dentro tutte le creature. È forse questa, dunque, la grande promessa: sperimentare come Cristo desidera tenerci sempre più vicini alla sua stessa vita, lasciando che sia lui e renderci familiari a sé, suoi amici, ora e per sempre.

Maria Segato – Parrocchia di Altichiero

condividi su

“Piccoli” di fronte alle grazie di Dio

Proprio nel mese in cui le preghiere alla Madre di Dio ci portano a lei con l’affetto più caldo, ha senso meditare una considerazione di Romano Guardini: «Non si può vietare a qualcuno di aver più gusto per una devozione privata che per la freddezza aspra dell’ufficio della Messa. Ma egli non può dire che la Liturgia è priva di vita, rigida, poiché egli stesso non riesce ancora a padroneggiare con l’animo queste forme ampie e forti. […] Dobbiamo renderci conto di quanto profondamente siamo ancora radicati nell’individualismo e nel soggettivismo, di quanto siamo disabituati al richiamo delle grandezze e di quanto sia piccola la misura della nostra vita religiosa. Deve risvegliarsi il senso dello stile grande nella preghiera, la volontà di coinvolgere anche in essa la nostra esistenza. Ma la via verso queste mete è la disciplina, la rinuncia a una sentimentalità morbida; un serio lavoro, svolto in obbedienza alla Chiesa, in rapporto al nostro essere e al nostro comportamento religioso». Lo scriveva in Formazione liturgica e intendeva dire la grandezza dell’amore cristiano: esattamente quello che ci vuole “piccoli”, adoranti di fronte alle grazie che Dio ci dona. È un amore che vince l’egoismo, si slancia verso il prossimo, trova pace nell’obbedienza. Guardini lo vedeva minacciato dall’individualismo, che i progressi della tecnica e le correnti filosofiche del tempo rendevano prepotente. Lusingato da un’illusoria autonomia, ripiegato su se stesso, l’uomo perdeva la vocazione a lodare e servire il Signore, smarrendosi in un autocompiacimento tanto accattivante quanto sterile.

condividi su

Punto dopo punto teologia e Scrittura prendono forma

Le suore missionarie francescane di Maria hanno cucito un capolavoro dell’arte capace di stare accanto a opere di Bellini e Tintoretto rubando loro la meraviglia. È una pianeta ricamata per san Pio X, esposta in una sala della mostra “La Maddalena e la Croce”, che rimarrà aperta fino al 13 luglio al Museo di Santa Caterina di Treviso.

Ovviamente ai piedi della croce c’è lei, l’apostola degli apostoli, che piange con il viso nascosto tra le mani. Un angelo vestito di violetto regge la scritta “Consummatum est”, mentre il suo compagno raccoglie in un ampio calice le gocce di sangue che escono dalle ferite del Signore. Il Figlio di Dio, caduto nella morte come in un sonno di indicibile tranquillità, è re e centro dell’opera. La catena degli angeli ritaglia una mandorla nell’oro dello sfondo e Gesù è di una bellezza radiosa e mite, il corpo perfettamente obbediente a una logica che è lui stesso e che gli uomini intravvedono solo in mezzo alle nubi dell’inquietudine. Il fiotto che sgorga dal suo costato è pieno di teologia e di Scrittura: una treccia di rosa e di bianco, sangue e acqua, che un altro calice, in mano all’angelo più giovane di tutti, beve per l’eternità.

Punto dopo punto, l’arte fa sì che ogni creatura intorno al Creatore abbia un’emozione leggibile sul viso. La Madre di Dio, in piedi a mani giunte, incapace di lasciarsi distrarre dai dubbi. Giovanni, che già sa contemplare il sangue raccolto nel calice e non più il volto umano del Signore. Il centurione caduto in ginocchio. Le donne impaurite e attratte da quel trionfo davanti a cui il mondo non può che provare imbarazzo. I tre soldatacci che si giocano ai dadi la tunica di Gesù, reliquia che ha custodito il mistero del Dio fatto carne. Il peggiore: il sacerdote che si volta sdegnoso a braccia conserte, come uno che ha liquidato un concorrente neanche degno di essergli messo a paragone.

Un sacro anonimato protegge l’identità delle artiste che hanno ricamato questo capolavoro perché il Santo Padre potesse celebrare degnamente la Liturgia. Per loro ci dev’essere solo il nome di figlie.

Anna Valerio

condividi su

Una veste è comune a tutti i ministri

 

Non è tanto opportuno, nell’ambito della Liturgia, usare il termine “paramenti”; troppo forte l’assonanza con la mondana “parata”, il nesso con l’identificabilità di un grado, di un ruolo, con le mostrine, il costume di scena. Per celebrare non si usano “paramenti”, ma vesti, e una è comune a tutti i ministri di qualsiasi grado. Guardiamo l’accolito accanto all’altare: egli indossa l’alba bianca. Il candore di cui si ricopre il ministrante è lo stesso del camice per la santa Messa che porta il Sommo Pontefice, o su cui un diacono aggiunge la stola e la dalmatica, un presbitero la stola e la casula, un vescovo la stola, la casula, la mitria, il pastorale e, se arcivescovo, il pallio. La veste delle vesti, il fondamento di ogni altra, è quella del Battesimo, figura del candore del Risorto. Ecco perché sarebbe indispensabile tornare all’uso del bianco perfetto, abbandonando lanette e morbidi beige, lontani dal nitore della rinascita pasquale, e, al contempo, ricordare che una veste liturgica ha bisogno di essere spiegata ed è il corpo che la spiega. Un presbitero, un diacono, un vescovo sguarniti di una nobile gestualità rendono l’abito muto, inutile.

I ministri, nella Liturgia, si sopravvestono, perché ciò che compiono è escatologico: anticipa, nel segno, la Pasqua nella sua pienezza. Il loro compito è “trattare” con la Pasqua ed è essa stessa a rivestirli di luce. Tra le persone che daranno corpo ai ministeri battesimali, non si dovrà allora mancare di trovare anche chi si prenda cura della sacrestia e faccia in modo che le vesti siano sempre lavate, pulite, mantenute integre, provvedendo a metterle a posto e a cucirle o a farle cucire dove ci sono strappi.

Gianandrea Di Donna

condividi su

Quattro liturgie, ciascuna è Pasqua

La Veglia non è un insieme di elementi rituali che per gradi vanno dalla benedizione del fuoco nuovo fino al culmine di un tripudio di “emotività” pasquale, come se si realizzasse un crescendo verso il “momento della Risurrezione”. Il rito è composto di quattro Liturgie (Lucernario, Liturgia della Parola, Liturgia battesimale e Liturgia eucaristica), che sono, ciascuna, compiutamente Pasqua.
La Pasqua di Cristo è una colonna di fuoco (Es 13,21) e di luce, nella quale siamo stati immersi per essere illuminati dal suo amore.
La Pasqua di Cristo è la persona del Verbo che interpreta tutte le pagine delle Scritture mostrando ciò che si riferisce a lui e ci interpella fino a immergerci in sé.
La Pasqua di Cristo è il passaggio del Mar Rosso, l’immersione nel Giordano, perché, usciti e rinati, veniamo crismati, abitati dallo Spirito Santo che prega in noi (Rm 8.26), ci porta a Cristo, intercede per noi, aiuta la nostra incapacità, illumina la nostra mente e scalda il nostro cuore guidandolo a Dio. Attraverso di lui si realizza l’unione a Cristo, poiché è nello Spirito del Figlio di Dio che siamo resi figli. L’Apostolo ci ricorda che «nessuno può dire “Gesù è Signore”, se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1 Cor 12,3). E nelle Catechesi sui Sacramenti, sant’Ambrogio afferma: «Chi si inebria dello Spirito è radicato in Cristo».
La Pasqua di Cristo è il suo Corpo e il suo Sangue nell’atto di offrirsi per noi e per la nostra salvezza: mangiando e bevendo questo cibo spirituale, siamo immersi nella sua vita donata e glorificata.

condividi su

Corriamo incontro allo Sposo, il Risorto

La Veglia pasquale è sempre stata la festa di coloro che “sprecano” e immolano il proprio tempo, come in un gioco d’amore, per il Risorto. In questa “notte veramente gloriosa”, lo Sposo irrompe e il suo palpito sono i sacramenti che generano alla fede – Battesimo, Cresima ed Eucaristia –, memorie viventi della Pasqua, la più straordinaria risorsa pastorale della Chiesa.
Già dal II secolo abbiamo le prime attestazioni di una Veglia pasquale che si protraeva per tutta la notte fino al canto del gallo. Verso il termine del IV secolo, papa Siricio la definiva “notte grande del Battesimo” e Leone Magno gli faceva eco riferendo che i neofiti vi giungevano dopo la lunga e impegnativa preparazione quaresimale. Nel V secolo, si cominciò a ritualizzare l’accensione dei lumi posti in mano ai fedeli e delle lampade della chiesa. Il passo successivo fu l’uso di un cero pasquale, sul quale veniva cantato un poetico e diffuso inno di lode: l’Exultet. L’ascolto di molti brani biblici, intervallati da salmi e litanie, fungeva da preghiera di attesa, mentre un corteo partiva dalla basilica e si recava nel Battistero, dove i catecumeni, dopo essere stati unti con olio esorcistico, aver rinunziato al diavolo e professato la fede trinitaria, venivano immersi nella vasca battesimale nel nome della Trinità Santa e, usciti dalle acque, erano unti con olio “di esultanza” misto a profumo: il santo Crisma. Rivestiti di un’alba, una veste bianca lucente come il sole, e portando un cero acceso, i neofiti si recavano all’altare per nutrirsi del Corpo e del Sangue del Signore e bere latte e miele, perché ormai erano giunti alla Terra promessa: Cristo stesso.
Alla Veglia è stata data una struttura quadripartita. La Pasqua della luce, con la liturgia solenne del cero e della diffusione della luce visibile, sacramento dell’invisibile splendore del Risorto; la Pasqua della Parola di Dio, dove si riconosce come l’Agnello trafitto e risorto balzi tra le pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento, che solo da lui prendono senso in pienezza; la Pasqua della rinascita dall’acqua e dallo Spirito, nella quale Cristo partecipa la propria vittoria sulla morte e il peccato a ogni uomo che lo segue; la Pasqua della Cena eucaristica dell’Agnello, in cui ci è offerto il cibo dei pellegrini, il pane che anticipa il banchetto eterno della redenzione.
C’è stata una stagione, nella storia del rito cristiano, in cui si è assistito all’esilio dei sacramenti dalla Veglia, e ciò ne ha causato una trasformazione e contrazione, facendole perdere l’identità più autentica, fino a renderla una sorta di meditazione sulla Pasqua, durante la quale i cristiani farebbero la scelta “adulta” di concedersi “un paio d’ore” di riflessione e ascolto della Parola di Dio sulla “centralità del mistero pasquale”… Ma la più gloriosa delle Liturgie della Chiesa è assolutamente irriducibile a un elitario e freddo contesto di preghiera-riflessione teologica. Questa celebrazione è “sacrificio” del tempo, regalato a un amato. Restiamo svegli perché aspettiamo l’arrivo del nuovo Adamo, il Risorto: lo guardiamo da lontano per vedere se arriva, lo invochiamo, ed è lui che prende l’iniziativa di venirci incontro. Non lo si può delimitare, descrivere, spiegare, circoscrivere. È grazia da ricevere. È uno sposo da attendere fino a mezzanotte per corrergli incontro (cfr. Mt 25,6).
La Veglia pasquale consegnataci dal Messale di Paolo VI ha ricollocato la celebrazione della Pasqua annuale in una relazione stretta con i sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell’Eucaristia, memorie viventi dell’agire del Signore, conformazione dei credenti a lui crocifisso, sepolto e risorto. Va sempre curato con sensibilità teologica l’accompagnamento di coloro che ricevono l’Iniziazione, perché sia sostegno della loro fede sia “prima” che “dopo” la celebrazione dei tre sacramenti pasquali. Il fine dell’evento materno ed ecclesiale dell’Iniziazione è infatti “additare”, “far riconoscere” il mistero della vita divina nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, ma le azioni liturgico-sacramentali, pur donando in sé stesse la grazia di Cristo, non sono riconoscibili e fruttuose in modo meccanico: vanno aiutate a dare frutto attraverso una paziente mistagogia di fede, che permetta ai credenti di imparare a scoprire che la loro forza e la loro assoluta necessità dipendono dal fatto che chi agisce in esse è Gesù Cristo, “velato” e allo stesso tempo “presente” con tutta la sua calda luce.

 

Gianandrea Di Donna

condividi su