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La messa inizia nella fraternità

L’anno pastorale che ci attende sarà dedicato alla “sensibilizzazione” rispetto ai ministeri battesimali, che prenderanno l’avvio intorno al 2027. Non si tratta di un’iniziativa per “addetti ai lavori”, ma di un’opportunità per riconoscere come ognuno sia chiamato a servire la Chiesa. In questa prospettiva si inseriscono quattro proposte per valorizzare le nostre Liturgie: la cura più consapevole del fonte battesimale, la celebrazione comunitaria dei Battesimi, la valorizzazione di alcune domeniche, la riscoperta del senso ecclesiale della processione d’ingresso nell’Eucaristia.

L’introito è tutt’altro che una solenne parata démodé. È un segno di grande rilievo teologico e un’occasione perché la Messa prenda l’avvio in un clima di fraternità. Immediatamente in esso ci è data la manifestazione dei ministeri battesimali e ordinati. Ecco i ministranti o gli accoliti nella loro veste candida, che rimanda proprio all’illuminazione ricevuta nel Battesimo, dove gli occhi del cristiano si sono aperti alla luce della verità. E poi il diacono, il presbitero, la Croce, l’Evangeliario, spada che taglia l’assemblea. Tutto diventa immagine della sequela, del camminare dietro al Signore, ma di più: delle mistiche nozze tra lo Sposo divino e la sua Sposa, la Chiesa. Il Risorto irrompe, attraversa il corpo mistico, lo inabita, lo trapassa con la sua Croce e la sua Parola, come lui stesso è trapassato. L’introito ha il dinamismo dello scoccare di una freccia, è carico della forza antropologica dell’andare verso una meta. Ci dice che siamo convocati, vigilanti, perché il Signore ci raggiunga come quando è apparso “a porte chiuse” nel cenacolo: “La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: Pace a voi!.” (cfr. Gv 20,19).

È necessario che il ritmo della processione sia pacato e la forma risulti composta e simmetrica, senza ostentazione e autocompiacimento. L’Ordinamento Generale del Messale Romano, al numero 20, scrive: “Quando il popolo è radunato, il sacerdote e i ministri, rivestiti delle vesti sacre, si avviano all’altare, in quest’ordine: il turiferario con il turibolo fumigante, se si usa l’incenso; i ministri che portano i ceri accesi e, in mezzo a loro, l’accolito o un altro ministro con la croce; gli accoliti e gli altri ministri; il lettore, che può portare l’Evangeliario un po’ elevato, ma non il Lezionario; il sacerdote che celebra la Messa”. [n. 120 O.G.M.R.] Nel caso in cui sia presente anche il diacono, il Messale precisa che egli “precede il sacerdote nella processione verso l’altare portando l’Evangeliario un po’ elevato; altrimenti incede al suo fianco” [n. 172].

La processione andrebbe preparata in un luogo idoneo, come la sacrestia, ma non si deve poi imboccare una scorciatoia con cui raggiungere immediatamente l’altare. È importante che i ministri ordinati passino in mezzo al popolo riunito, facendo percepire la loro prossimità. Ben diversa è l’impressione che dà un parroco che appare sull’altare quasi fosse un attore che sale sul palcoscenico da dietro le quinte, o che invece attraversa la navata e saluta i parrocchiani, così come fanno il Papa stesso e i vescovi. Questo passaggio ha qualcosa di molto umano; è il momento in cui ci vediamo in faccia, ci riconosciamo, sappiamo chi c’è, ci accorgiamo che manca quella persona, perché ci vogliamo bene, siamo l’assemblea del Risorto, la sua Chiesa, il suo popolo.

Piuttosto che la parata o il corteo, l’introito ricorda l’ingresso di Gesù nei villaggi, nelle sinagoghe, nelle case, quando guariva i malati, convertiva i pagani, i peccatori, si intratteneva a conversare con i piccoli, gli ultimi. Il clima è quello della prossimità, che tante volte i Vangeli hanno rappresentato. La Liturgia dovrebbe allora dare all’introito un geniale equilibrio tra la solennità, l’importanza del gesto, l’autorevolezza, e la semplice, quasi dimessa familiarità del curvarsi del Signore sulle nostre ferite e debolezze. Il Verbo incarnato colma la distanza tra lui e noi; unisce a sé la sua Sposa, la Chiesa, con un vincolo che non è valoriale, ma carnale. Ci invita a mangiare il suo corpo e a bere il suo sangue perché possiamo divenire “concorporei e consanguinei” (cfr. Ef 3,6) “partecipi della natura divina” (2Pt 1,4). L’eschaton, il compimento, è allora già qui: al suono del campanello, è Pasqua.

Gianandrea Di Donna

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Maggiore visibilità al battesimo

C’è stato un periodo non breve, fino a una ventina di anni fa, in cui i Battesimi venivano celebrati quasi solo nelle domeniche durante la Messa parrocchiale, per evidenziare la loro connessione teologica con l’Eucaristia, evocando l’unità dei tre sacramenti dell’Iniziazione cristiana (dove però la Cresima risultava sempre penalizzata), e sottolinearne la dimensione ecclesiale, per cui la persona che veniva unita al mistero pasquale del Signore Gesù era anche misticamente aggregata alla Chiesa, ne diventava membro. Oggi una simile prassi è in crisi, essendo diminuito considerevolmente il numero dei bambini da battezzare e cambiata la natura delle famiglie che li presentano, spesso prive di un rapporto stabile con la Chiesa, cosa che genera, nel rito, un grande imbarazzo, visto che padre e madre sono molto coinvolti anche fisicamente, attraverso gesti, dialoghi, risposte sollecitate dallo schema liturgico.

Per conservare la preziosa unità dei sacramenti dell’Iniziazione cristiana e dare una visibilità maggiore alla grazia battesimale, varrebbe la pena destinare il Tempo di Pasqua all’innesto dei Battesimi nell’Eucaristia domenicale, adottando invece nel resto dell’anno altre modalità. Una proposta innovativa potrebbe essere quella di celebrare il Battesimo nel tardo pomeriggio del sabato, sostituendo la catechesi ordinaria dei bambini con la loro partecipazione al rito. Ecco che l’ecclesialità si renderebbe percepibile con forza immediata, in modo più efficace che tramite le mediazioni razionalistiche, etiche e pedagogiche, e i bambini sarebbero la Chiesa che accoglie festante, con il canto e l’innocenza, la famiglia che presenta il proprio figlio perché entri a far parte del Corpo di Cristo.

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Restituire centralità simbolica al fonte battesimale

Nelle chiese di San Giuseppe e di San Paolo a Padova, sulla parete a sinistra, non c’è un semplice altare laterale con il fonte battesimale, ma è stata edificata una struttura ottagonale con un’apertura sul soffitto da cui scende la luce dall’alto sulla vasca. Erano gli anni ’50-’60, in cui si meditavano i testi di Romano Guardini con la loro profonda teologia dello spazio liturgico, e, pur nell’ostentato razionalismo delle forme e nell’estemporaneità dei materiali, la ianua Ecclesiæ, la “porta d’ingresso nella Chiesa”, c’era e si mostrava in tutta la sua potenza di luogo di illuminazione, di rinascita pasquale.

Mentre chiediamo al Signore di irrobustire nella nostra Diocesi i carismi battesimali, sarebbe importante riprendere coscienza del fatto che una chiesa parrocchiale ha un proprio fonte, troppo spesso destinato a rimanere ai margini. Prendersene cura significherebbe non solo mantenerlo pulito e accessibile, ma restituirgli una centralità simbolica, liberandolo da riviste, cartelloni, foto dei bambini battezzati (che possono trovare una collocazione più adeguata in un altro spazio) e mostrando che ciò che lo impreziosisce è la luce, che può essere anche artificiale: un faretto che in modo “epicletico”, nella penombra della chiesa, lo mette in evidenza. E poi occorrerebbe trovare il modo di iconizzarlo con una tela del Battista, o anche dei murales del battesimo del Signore al Giordano o di una discesa dello Spirito Santo sulle acque. Fuori dal Tempo di Pasqua, dovrebbe avere accanto il candelabro con il cero pasquale e lì vicino andrebbe posto un piccolo forziere, con una porticina incassata nel muro, dove collocare i santi olii.

Il fonte andrebbe usato sempre quando si celebra il rito del Battesimo dei bambini e in quell’occasione lo si potrebbe valorizzare aprendolo – se ha un ciborio di copertura – e illuminandolo, o cingendo il perimetro della vasca con una delicata ghirlanda di fiori che evochino il giardino pasquale dove passeggiava il Risorto nel chiarore dell’alba.

Anna Valerio

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Valorizzare il carisma battesimale

Nel corso dell’anno liturgico, ci sono alcuni momenti, come la festa del Battesimo del Signore o la domenica in albis (II di Pasqua), che risultano particolarmente adatti a meditare la grazia del Battesimo. In questi giorni, sarebbe importante valorizzare il rito dell’aspersione all’inizio della Messa, oppure invitare la comunità a rinnovare le promesse battesimali, sostituendo al Credo la formula interrogativa. Segni semplici, ma capaci di riaccendere la consapevolezza del dono ricevuto, ricordando che ogni Eucaristia è un ritorno alla sorgente del nostro essere cristiani.

La memoria Baptysmi, “memoria del Battesimo”, che prende il posto dell’atto penitenziale, è molto in uso nel Tempo di Quaresima, con l’intenzione di sottolineare la dimensione della purificazione, ma di per sé non avrebbe questa valenza. Il rito chiede piuttosto di fare memoria della partecipazione al mistero pasquale, per cui le domeniche più indicate per prevederlo sarebbero quelle del Tempo di Pasqua.

Un’occasione preziosa per valorizzare il carisma battesimale del popolo di Dio è la preparazione della Preghiera dei fedeli. I parroci potrebbero individuare qualcuno che si incarichi di scrivere le litanie o le preghiere e si senta libero di spaziare oltre le formule predefinite dell’Orazionale. L’unica accortezza è che tenga presente il tempo liturgico, il Vangelo del giorno, le urgenze del mondo contemporaneo, le giornate mondiali stabilite dal Santo Padre, e consideri in modo accorato le gioie e i dolori dei fratelli, le fatiche e le necessità del prossimo, la realtà concreta, fatta di siccità e inondazioni, calamità e crimini, speranze e sete di giustizia. Ricordare queste intenzioni e trasformarle nella voce del Chiesa che invoca “Ascoltaci, Signore” è un modo esemplare di esercitare il sacerdozio comune di tutti i battezzati.

Per il testo in alto: “Io saluto nel sangue di Gesù Cristo questa Chiesa, che è mia gioia eterna e indefettibile, soprattutto se sono uniti tutti i suoi membri con il vescovo, con i presbiteri e con i diaconi, scelti secondo il pensiero di Gesù Cristo, e da lui resi forti e saldi, secondo la sua volontà, mediante il suo Santo Spirito.” Sant’Ignazio di Antiochia

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Il cantare è di chi ama

Per chi canta in un coro parrocchiale o suona l’organo, per i seminaristi e i ministri ordinati – presbiteri e diaconi –, ma anche per chi ha il desiderio, da credente, di capire di più la grandezza dei Misteri che celebriamo, la Chiesa di Padova mette a disposizione una scuola dove poter frequentare corsi che consentono di acquisire tecniche musicali ai più vari livelli. È l’Istituto di canto e musica per la Liturgia “San Pio X”, sito nei locali della Parrocchia di Sant’Andrea, in centro a Padova.

Quest’anno le attività cominceranno sabato 4 ottobre, con l’open day della scuola, dalle ore 9 alle 12.30 e dalle 14.30 alle 17.30. Sarà possibile assistere alle lezioni, incontrare i maestri e la dirigenza, dialogare con gli allievi, scoprire il programma previsto per il 2025/26 e le proposte di stage intensivi. L’offerta è molto varia, proprio per andare incontro alle diverse esigenze, competenze e sensibilità, con moduli didattici per i principianti assoluti come per chi cerca un’alta specializzazione. Si va dallo studio del pianoforte e dell’organo, con la possibilità di lezioni anche individuali, al solfeggio per coristi, alla lettura della partitura per direttori di coro, alla preziosa arte della cantillazione del Salmo, alla teoria e storia della musica (in particolare liturgica). Viene data un’attenzione speciale al canto per eccellenza della Chiesa, il Gregoriano, ma non mancano corsi per chi ha bisogno di acquisire una dimestichezza di base con il latino liturgico o con la teologia e la storia della Liturgia. Gli studenti che vogliono invece assumere un impegno più organico possono intraprendere un itinerario articolato in tre anni (con un eventuale quarto, se c’è bisogno di una preparazione propedeutica), che si chiude con un esame davanti a una commissione didattica e il conseguimento di un diploma.

Di grande attualità è il nuovo corso che viene proposto per i Lettori parrocchiali, ministero che merita di essere promosso e valorizzato, soprattutto pensando al rinnovamento della nostra Chiesa in base alle indicazioni del Sinodo diocesano, con un coinvolgimento forte dei laici nell’agire ecclesiale. Il numero 101 dei praenotanda del Messale raccomanda che coloro che salgono all’ambone “siano adatti a svolgere questo compito e ben preparati, […] affinché i fedeli maturino nel loro cuore, ascoltando le letture divine, un soave e vivo amore alla sacra Scrittura”.

È sempre il Messale a ricordare, con parole perentorie e ispirate, l’importanza della musica nella celebrazione eucaristica: “I fedeli che si radunano nell’attesa della venuta del loro Signore sono esortati […] a cantare insieme salmi, inni e cantici spirituali (Cf. Col 3,16). Infatti il canto è segno della gioia del cuore (Cf. At 2,46). Perciò dice molto bene sant’Agostino: «Il cantare è proprio di chi ama», e già dall’antichità si formò il detto: «Chi canta bene, prega due volte».” [n. 39]. Poco oltre si precisa: “Anche se non è sempre necessario, per esempio nelle Messe feriali, cantare tutti i testi che per loro natura sono destinati al canto, si deve comunque fare in modo che non manchi il canto dei ministri e del popolo nelle celebrazioni domenicali e nelle feste di precetto.” [n. 40]. Il motivo è delicatamente umano. Abbiamo bisogno della bellezza e dell’arte per far sì che le nostre celebrazioni siano un anticipo della beatitudine che ci è stata promessa, ma anche per annunciare il Vangelo ai fratelli lontani, che spesso vengono presi dalla meraviglia e da un presagio di infinito quando entrano come semplici turisti in una chiesa e sentono le note dell’organo, o un coro che intona un inno a Maria di Lorenzo Perosi o in gregoriano, oppure un cantore che cantilla con vera competenza un Salmo. Dal punto di vista etico, la musica è anche una splendida palestra di fraternità: cantare o suonare insieme permette di vivere un’esperienza importante di accordo e armonia.

L’anno scorso è uscito un saggio di matrice sociologica con un titolo che era una provocazione: “La Messa è sbiadita”. Evitando di cedere alla pigrizia e al disincanto, dovremmo porci come obiettivo quello di smentirlo. Se rendiamo le Eucaristie domenicali sempre più palpitanti di carità e luminose di bellezza artistica, esse manterranno tutto il loro colore.

Francesco Cavagna

Vicedirettore Istituto di canto e musica per la Liturgia “San Pio X”

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No a estremismi del ritualismo e creatività esasperata

“Tu sei la nostra speranza”. Il grido che conclude l’inno Te Deum è stato il filo rosso degli incontri culturali che hanno caratterizzato la settantacinquesima Settimana Liturgica nazionale, organizzata dal Centro di Azione Liturgica presieduto da S.E. Mons. Claudio Maniago. Più di cinquecento persone riunite a Napoli, in questo anno giubilare dedicato alla Speranza, immerse in una città dalle molte contraddizioni: bellezza e incuria, grandiosità e povertà, religiosità e devozionismo.

La Cattedrale, la Basilica di Capodimonte, le chiese di Santa Chiara e di San Felice a Cimitile sono stati i luoghi in cui la Settimana ha potuto vivere quella “formazione dalla Liturgia” auspicata da papa Francesco e richiamata più volte dai diversi relatori. In particolare, è stata significativa la sosta sulle fondamenta paleocristiane di Cimitile, dove i segni della fede che ha animato il popolo campano sembrano custodire la speranza di una rinnovata vitalità spirituale e rituale.

Elementi ricorrenti sono stati la necessità di evitare gli estremismi del ritualismo e della creatività esasperata, posto che il rito non è solo frutto dell’incontro con il nostro ambiente vitale, ma plasma e orienta lo spazio e il tempo all’adorazione di Dio. Se la Liturgia ha la pretesa di cambiare l’uomo, e non solo di intrattenerlo spiritualmente, essa diventa l’azione che imprime nella nostra vita una forma nuova: quella del Crocifisso e Risorto. L’auspicio è allora che le comunità possano riscoprire sempre più Cristo come «l’unica vera speranza che supera ogni umana attesa e rischiara gli infiniti secoli» (Prefazio della Messa rituale per il Giubileo) e scegliere di celebrarlo con tutta la luce che gli è propria.

Marino Angelocola

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Riscoprire la ricchezza della riconciliazione cristiana

La LII Settimana di Studio dell’Associazione Professori di Liturgia, dal titolo “Rito e riconciliazione”, è stata dedicata al Sacramento della Penitenza e alle diverse forme di riconciliazione cristiana nella loro relazione al contesto contemporaneo. Sono anni, infatti, che tale sacramento vive una crisi nelle comunità cristiane, nonostante i molteplici sforzi pastorali.

Il tema è stato affrontato da varie prospettive. L’apertura è stata affidata all’orizzonte filosofico: attraverso una rilettura delle opere di Jean Nabert, si è esplorata la consapevolezza che la coscienza acquisisce di sé quando ritorna sul male compiuto per comprenderlo e comprendersi (C. Canullo). Si è passati poi al confronto con i cammini di giustizia riparativa, in modo particolare alle ritualità in essi presenti (M. Serbo).

Alla prospettiva storica (medioevo, epoca moderna e contemporanea) è stata dedicata un’intera giornata, alla ricerca della ricostruzione della molteplicità delle prassi – anche oltre il sacramento stesso – che hanno abitato nel corso della storia il riconciliarsi nella tradizione cristiana (U. C. Cortoni, M. Al Kalak, E. Massimi). Non poteva mancare uno sguardo alle altre confessioni cristiane (D. H. Finatti, F. Santi Cucinotta). Infine gli affondi teologici sono stati affidati a K. Appel e A. Fumagalli. La relazione di chiusura è stata curata da Mons. Marco Busca, vescovo di Mantova, che ha raccolto i frutti del convegno aprendo alla necessità di un sistema penitenziale per il processo di riconciliazione del cristiano contemporaneo. La settimana inoltre è stata arricchita dalla presentazione del volume “tutto patavino” (Ripensare la penitenza, edd. R. Bischer, A. Toniolo) sulla III forma dell’Ordo Paenitentiae, frutto dei seminari di studio promossi dalle istituzioni teologiche venete. Ci si augura che le acquisizioni dei molteplici interventi possano realmente tradursi in prassi perché i fedeli cristiani abbiano modo di riscoprire la ricchezza della riconciliazione cristiana nelle sue molteplici forme.

Elena Massimi

Presidente Associazione Professori di Liturgia

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Cantare i salmi è più di dire. È entrare nel testo stesso

La prima pagina della Bibbia si apre con un inno alla creazione: una contemplazione poetica che andrebbe cantata. Tutta la Scrittura è ritmata da pause sonore, testi di inni di cui non conosciamo la musica, ma che ci indicano che l’indicibile viene evocato dalla poesia cantata. Un intero libro è dedicato alla raccolta dei Salmi: la Bibbia ebraica titola il Salterio Sefer tehillîm: Libro delle lodi. Questo nome ne sottolinea il contenuto, evidenziando che la lode è il senso fondamentale del Libro. In greco viene chiamato Psalterion, che indica lo strumento a corde utilizzato per accompagnare il canto. I Salmi sono quindi dei canti: limitare questi testi alla lettura li svilisce. Nella Costituzione Apostolica Divino Afflatu, san Pio X affermava: «Una parte ragguardevole della sacra Liturgia e del divino Ufficio, secondo l’uso già accolto nella Legge antica, è costituito da Salmi. Da essi nacque quella “voce della Chiesa” di cui parla Basilio, e la salmodia, “figlia di quella innodia […] che risuona incessantemente davanti al trono di Dio e dell’Agnello”».

Mentre la Torah insegna all’uomo come vivere la fede, i Salmi insegnano la fede attraverso la preghiera e il canto. Il Salterio è un libro teandrico: dal greco Theos – Dio e aner – uomo. Pur essendo scritti da uomini, i Salmi sono ispirati da Dio: è come se Dio ci avesse donato le parole con cui rivolgerci a lui. Nella Messa, il Salmo è la preghiera dell’assemblea che canta a Dio la risposta a quanto ricevuto nella prima lettura. Il testo sacro esige una risposta così alta che non può essere data che con un’altra parola di Dio. Cantare è più di dire: è entrare nel canto stesso che risuona nel cielo eterno. E se non esiste che una sola preghiera, quella di Cristo al Padre, nella quale entriamo grazie al gemito dello Spirito Santo (cfr. Rm 8,26), nella Liturgia delle Ore, sono i Salmi a costruire la preghiera: questi canti che Cristo aveva sulle labbra, ora li offre alla sua Sposa perché si unisca alla sua lode perenne.

 

Elide Siviero

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Giovani fino alla Croce

Il recente Sinodo sulla Sinodalità in più passaggi si è occupato del coinvolgimento dei giovani nella vita della Chiesa. Rimangono attuali alcune criticità, già evidenziate da Papa Francesco: “I giovani non vogliono essere intrattenuti, ma coinvolti […] Non sono il futuro, sono l’adesso di Dio” (Christus vivit, nn. 64–72). Gli stessi Vescovi osservano, nel documento finale del Sinodo: “Ascoltare i giovani vuol dire mettersi in discussione, riconoscere che molte delle loro domande sono rivolte a una Chiesa che percepiscono come distante, talvolta giudicante o poco significativa per la loro vita” (n. 16). E ancora: “Per una Chiesa sinodale è essenziale coinvolgere i giovani nei processi decisionali e nelle pratiche pastorali, riconoscendo i loro carismi e le loro competenze” (n. 17).

Il 2025 si è aperto così con il Seminario di studio “Giovani e Liturgia”, che ha riunito a Roma la Commissione Episcopale per la Liturgia, la Consulta dell’Ufficio Liturgico Nazionale e quella del Servizio Nazionale per la Pastorale Giovanile. Centro delle due giornate è stato l’intervento della professoressa Rita Bichi, che ha presentato il Rapporto Giovani 2024 dell’Istituto Toniolo, dove è descritto l’approccio delle nuove generazioni all’esperienza religiosa, con più di qualche accenno alla loro scarsa partecipazione alla Messa domenicale. Ai primi di aprile l’Università Pontificia Salesiana è tornata sull’argomento in una giornata di studio dal titolo: “Giovani, Bibbia e Liturgia. Esplorazioni Pastorali”. L’intento era di poter offrire prospettive pastorali innovative, nella speranza di attrarre le nuove generazioni alla vita liturgica, accogliendo con più disponibilità i loro linguaggi. ​

Eppure emerge anche un altro genere di sensibilità giovanile: ragazzi che guardano con gratitudine addirittura a quel “senso di costrizione” che il rigore del rito, fatto di norme da rispettare, suscita. Uno studente di Fisica ventiduenne del nostro Ateneo racconta così il suo amore per una Liturgia celebrata senza aggiustamenti, come il Concilio Vaticano II l’ha affidata alla Chiesa: è quasi “il sollievo di dover fare altro da ciò che la nostra spontaneità vorrebbe”.

La pensa allo stesso modo un diciannovenne che frequenta il Conservatorio ed è uno dei gregorianisti della Schola cantorum della Cattedrale di Padova. Ha invitato vari compagni e compagne di studi, suoi coetanei, a entrare nel coro diretto dal Maestro Alessio Randon, e adesso si trovano il martedì sera per le prove insieme agli altri membri esperti della Schola. Imparano il canto liturgico per eccellenza, il gregoriano, ma non solo: li abbiamo ascoltati nell’Elevazione musicale di Pasqua dedicata all’esigente polifonia cinquecentesca di Palestrina e de Victoria.

E se c’è addirittura, tra i loro amici, chi prega il Signore di fargli la grazia di consentirgli l’ingresso nella Certosa di Serra San Bruno, per una vita tutta consegnata alla lode di Dio, sull’altro fronte continuano a gridare i banchi vuoti delle Messe domenicali. Sarebbe imprudente non volerli ascoltare e non impegnarsi a tentare di porvi rimedio. Eppure, forse, la risposta che da decenni si è azzardata, costringendo la Liturgia ad assumere in modo a volte forzoso i linguaggi “dei giovani”, non è l’unica possibile (anche perché oggi la moda delle chitarre elettriche è superata dal ringhio dei testi minacciosi della trap). La formula che il Concilio Vaticano II ha coniato, chiedendo che la Messa sia un capolavoro di nobiltà e semplicità – “i riti splendano per nobile semplicità” (Sacrosanctum Concilium n. 34) –, deve mantenere la propria tensione, senza sacrificare né l’uno né l’altro dei due estremi. Solo così ci si potrà concentrare sullo “splendore”, da far irrompere nel mondo in tutta la sua potenza, che certo risulta quasi violenta per occhi abituati alla penombra. L’Evangelista Giovanni ci ha già insegnato quali sono i rischi: la tragica fragilità per cui “gli uomini amarono più le tenebre che la luce”. C’è un infantilismo dell’anima (accusato sempre, nella Bibbia, dai profeti) che porta le creature ad accontentarsi degli adescamenti del mondo. Ma i giovani non sono bambinetti. Papa Francesco, in Christus vivit, raccomandava che si permettesse loro di fare nella Chiesa esperienze forti, incarnate, comunitarie. Con il corredo delle loro energie al massimo dell’intensità, i ragazzi e le ragazze sono i più potenzialmente adatti a correre, in compagnia dei santi, fino al punto più alto in cui splende la gloria di Dio: la Croce.

Anna Valerio

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Fede, dottrina cattolica e poesia

Immediatamente dopo il “miracolo eucaristico di Bolsena” del 1263, Papa Urbano IV incaricò san Tommaso d’Aquino di comporre per la solennità del Corpus Domini alcuni inni eucaristici, tra i quali la sequenza Lauda Sion Salvatorem, la cui sezione più nota è l’Ecce Panis angelorum. Il testo latino unisce fede, retta dottrina cattolica e arte poetica, fino a prendere fuoco quando il Dottore angelico si slancia nella raccomandazione: “Quantum potes, tantum aude:/ quia maior omni laude,/ nec laudare sufficis” (“Quanto puoi, tanto osa, poiché [il Signore] è più grande di ogni lode e non si è mai in grado di lodarlo abbastanza”). Tommaso chiede che impieghiamo tutto l’ardore di cui siamo capaci nel rendere grazie a un Dio che continua a piantare nella nostra carne la Gerusalemme del cielo, la Sion della salvezza, donandoci il suo Corpo sacrificato e glorioso da accogliere nel nostro corpo mortale.

L’Eucaristia splende davanti agli occhi del santo, che desidera liberare tutti i credenti dalla cecità, dall’ignavia, dalla tiepidezza, dalla tentazione di servire due padroni: il Creatore dell’universo e le pretese dell’egoismo. È il momento di rallegrarsi, di esultare nella pienezza della fede, perché la vanità delle vanità cede il passo alla verità: “Vetustatem novitas,/ umbram fugat veritas,/ noctem lux eliminat” (“La novità mette in fuga le cose vecchie, la verità le ombre, la luce elimina la notte”). Finalmente sul volto anziano e amaro di Qohelet, profeta della “sublime ironia della polvere”, può disegnarsi il sorriso del buon raccolto, la meraviglia di una novità proprio nuova.

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