Il recente Sinodo sulla Sinodalità in più passaggi si è occupato del coinvolgimento dei giovani nella vita della Chiesa. Rimangono attuali alcune criticità, già evidenziate da Papa Francesco: “I giovani non vogliono essere intrattenuti, ma coinvolti […] Non sono il futuro, sono l’adesso di Dio” (Christus vivit, nn. 64–72). Gli stessi Vescovi osservano, nel documento finale del Sinodo: “Ascoltare i giovani vuol dire mettersi in discussione, riconoscere che molte delle loro domande sono rivolte a una Chiesa che percepiscono come distante, talvolta giudicante o poco significativa per la loro vita” (n. 16). E ancora: “Per una Chiesa sinodale è essenziale coinvolgere i giovani nei processi decisionali e nelle pratiche pastorali, riconoscendo i loro carismi e le loro competenze” (n. 17).
Il 2025 si è aperto così con il Seminario di studio “Giovani e Liturgia”, che ha riunito a Roma la Commissione Episcopale per la Liturgia, la Consulta dell’Ufficio Liturgico Nazionale e quella del Servizio Nazionale per la Pastorale Giovanile. Centro delle due giornate è stato l’intervento della professoressa Rita Bichi, che ha presentato il Rapporto Giovani 2024 dell’Istituto Toniolo, dove è descritto l’approccio delle nuove generazioni all’esperienza religiosa, con più di qualche accenno alla loro scarsa partecipazione alla Messa domenicale. Ai primi di aprile l’Università Pontificia Salesiana è tornata sull’argomento in una giornata di studio dal titolo: “Giovani, Bibbia e Liturgia. Esplorazioni Pastorali”. L’intento era di poter offrire prospettive pastorali innovative, nella speranza di attrarre le nuove generazioni alla vita liturgica, accogliendo con più disponibilità i loro linguaggi.
Eppure emerge anche un altro genere di sensibilità giovanile: ragazzi che guardano con gratitudine addirittura a quel “senso di costrizione” che il rigore del rito, fatto di norme da rispettare, suscita. Uno studente di Fisica ventiduenne del nostro Ateneo racconta così il suo amore per una Liturgia celebrata senza aggiustamenti, come il Concilio Vaticano II l’ha affidata alla Chiesa: è quasi “il sollievo di dover fare altro da ciò che la nostra spontaneità vorrebbe”.
La pensa allo stesso modo un diciannovenne che frequenta il Conservatorio ed è uno dei gregorianisti della Schola cantorum della Cattedrale di Padova. Ha invitato vari compagni e compagne di studi, suoi coetanei, a entrare nel coro diretto dal Maestro Alessio Randon, e adesso si trovano il martedì sera per le prove insieme agli altri membri esperti della Schola. Imparano il canto liturgico per eccellenza, il gregoriano, ma non solo: li abbiamo ascoltati nell’Elevazione musicale di Pasqua dedicata all’esigente polifonia cinquecentesca di Palestrina e de Victoria.
E se c’è addirittura, tra i loro amici, chi prega il Signore di fargli la grazia di consentirgli l’ingresso nella Certosa di Serra San Bruno, per una vita tutta consegnata alla lode di Dio, sull’altro fronte continuano a gridare i banchi vuoti delle Messe domenicali. Sarebbe imprudente non volerli ascoltare e non impegnarsi a tentare di porvi rimedio. Eppure, forse, la risposta che da decenni si è azzardata, costringendo la Liturgia ad assumere in modo a volte forzoso i linguaggi “dei giovani”, non è l’unica possibile (anche perché oggi la moda delle chitarre elettriche è superata dal ringhio dei testi minacciosi della trap). La formula che il Concilio Vaticano II ha coniato, chiedendo che la Messa sia un capolavoro di nobiltà e semplicità – “i riti splendano per nobile semplicità” (Sacrosanctum Concilium n. 34) –, deve mantenere la propria tensione, senza sacrificare né l’uno né l’altro dei due estremi. Solo così ci si potrà concentrare sullo “splendore”, da far irrompere nel mondo in tutta la sua potenza, che certo risulta quasi violenta per occhi abituati alla penombra. L’Evangelista Giovanni ci ha già insegnato quali sono i rischi: la tragica fragilità per cui “gli uomini amarono più le tenebre che la luce”. C’è un infantilismo dell’anima (accusato sempre, nella Bibbia, dai profeti) che porta le creature ad accontentarsi degli adescamenti del mondo. Ma i giovani non sono bambinetti. Papa Francesco, in Christus vivit, raccomandava che si permettesse loro di fare nella Chiesa esperienze forti, incarnate, comunitarie. Con il corredo delle loro energie al massimo dell’intensità, i ragazzi e le ragazze sono i più potenzialmente adatti a correre, in compagnia dei santi, fino al punto più alto in cui splende la gloria di Dio: la Croce.
Anna Valerio