Il fine del canto sacro è generare un atto rituale

Il fine del canto sacro non è di aggiungere alla lettura del testo della Messa orpelli estetici, ma di generare un atto rituale. Il mistero della voce dell’uomo, strumento sonoro principe della Liturgia, può suscitare vibrazioni, palpiti, oscillazioni, quasi un’onda, una scossa… al nostro cuore perché tra i santi segni intravveda Cristo, il crocifisso risorto. La processione d’ingresso diventa così l’irruzione del Risorto tra i suoi (la Chiesa); il segno di Croce si libera della gestualità devozionale; il Kyrie è struggente grido che chiede a Dio vicinanza e misericordia; il Gloria si fa lode fragorosa; il salmo responsoriale si imprime nei cuori come un’umanissima, lirica profezia della fede; il canto al Vangelo accoglie con l’entusiasmo di Maddalena il Signore Gesù dolcissimo e vivo; il prefazio e il Sanctusuniscono le nostre piccole voci al grande canto degli angeli e dei santi che vedono il volto di Dio e lo chiamano tre-volte-Santo; il canto del racconto dell’istituzione dell’Eucaristia si libera dal rischio della “narrazione sacra” ed evoca il mistero dell’agire del Signore; il canto della dossologia dà alla preghiera che va verso il cielo un sigillo di gloria per quanto abbiamo chiesto e ricevuto nell’Anafora; l’Agnus Dei allude al sangue versato di Cristo, che sgorga dallo spezzare il Pane celeste; la comunione eucaristica dilata il silenzio con una pacatezza che nutre l’anima.

È una luce gloriosa che trafigge le parole che usiamo nella celebrazione perché inizino a vibrare “dall’alto” (cfr. Gv 3,3), una trasfigurazione difficile a dirsi, ma percepibile immediatamente quando, nell’aula, il Vescovo, il presbitero o il diacono cantano dialogando con l’assemblea; quando il salmista canta con l’assemblea; quando la schola cantorum canta con l’assemblea; quando il silenzio canta con l’assemblea. Il canto sacro deve tornare allora a essere soprattutto quello dei dialoghi rituali – ahimè dimenticati –, come il saluto liturgico, il dialogo al Vangelo, al prefazio, la benedizione e il congedo.

Gianandrea Di Donna