Dopo il Sinodo diocesano, molta energia andrà impiegata per la formazione dei laici che si porranno a servizio della Chiesa nella modalità dei ministeri battesimali (senza escludere, in un futuro prossimo, quelli istituiti), e la musica sacra è tra gli ambiti che chiedono di essere presi in considerazione più sistematicamente. In Italia ci si deve confrontare con una situazione problematica. “I bambini non hanno un’adeguata familiarità con la musica”, osserva don Vincenzo De Gregorio, che per trentun anni è stato direttore di conservatori e ha incontrato migliaia di studenti, fino a ricoprire l’incarico, a Roma, di preside del Pontificio Istituto di Musica Sacra. “Nei paesi germanofoni, la tradizione del canto è cifra comune. In Italia, invece, i piccoli crescono senza avere la minima esperienza del cantare in coro o di cosa sia il sound di un’orchestra. Claudio Abbado, Riccardo Muti, ritenendo la Chiesa cattolica colpevole di aver dilapidato i suoi tesori, sbagliavano bersaglio. Il primo problema è l’educazione del cittadino italiano, che diventa adulto senza conoscere nemmeno i rudimenti della musica. E così anche il nostro clero accusa gravi deficit a causa di una pedagogia scolastica carente.”
Don Vincenzo non pensa la Chiesa ex cathedra. Se la ritrova intorno nel caldo Duomo di San Gennaro a Napoli, dove suona l’organo ogni domenica. Qui ascolta la voce del popolo di Dio, sempre meno musicale, mentre immagina alcuni tentativi da intraprendere. “Come offriamo ai ragazzi, sulla traccia del catechismo nazionale, itinerari di formazione ai sacramenti dell’Iniziazione cristiana, non dovremmo far mancare una pedagogia affidata in modo significativo alla musica. È necessario predisporre per loro un repertorio condiviso di canti, con un’attenzione soprattutto per i salmi.”
Con quel “per loro”, don Vincenzo non pensa a canzoncine di intonazione infantile. “Ai bambini della prima comunione non ho mai avuto remore a insegnare la messa in gregoriano, che in particolare nelle composizioni più antiche ha melodie facilissime. Ai piccoli si possono proporre alcuni brani tradizionali e i canti dell’ordinario della messa: il Santo, l’Agnello di Dio, un Gloria, i Kyrie più semplici. E poi le antifone mariane, gli inni allo Spirito Santo, qualche versetto salmodico. Poche cose, ma che le imparino tutti.”
I canti di Davide sono la grande risorsa da riscoprire. “Basta mettere insieme dieci salmi, non di più, perché i bambini possano cantare all’unisono da un punto all’altro dell’Italia. Le parole dei salmi abbracciano l’intero percorso della vita, dalla nascita alla morte. Sono adeguati a un’opera penitenziale, a chiedere perdono, ad accompagnare un defunto, a esaltare lo splendore dell’uomo, a consolare…”
Il rischio – don Vincenzo lo ha ben presente – è che in simili operazioni manchi la compattezza ‘ecclesiale’. “Sono iniziative che vanno orientate in primis a generare una comunione che si è persa nel momento in cui si è voluto dare spazio a una creatività senza barriere, per cui chiunque poteva inventarsi compositore di musica sacra. Mentre la Conferenza episcopale francese chiede che un canto da eseguire in chiesa passi per il filtro di una commissione, in Italia questo non è mai accaduto. E così ognuno ha potuto creare, dire, suonare e cantare quello che voleva. Lo vediamo in maniera eclatante nel caso dei cosiddetti ‘movimenti’.”
Un rimedio contro la dispersione delle energie sarebbe la cura dell’esemplarità, ma il contesto attuale non la favorisce. “Oggi i giovani in formazione nei seminari non hanno più l’esperienza della Settimana Santa vissuta nelle cattedrali, il modello della grande musica per le celebrazioni del Triduo pasquale. Vanno nelle parrocchie, giustamente, a fare esperienza, ma bisogna tenere conto che, così, l’esemplarità viene meno e ognuno poi si mette a fare quello che vuole.” Un tempo, invece, il canto creava un’immediata armonia. T’adoriam, ostia divina era l’inno eucaristico di tutti, perché tutti in Italia lo conoscevano. E lo stesso valeva per numerosi canti della devozione popolare, mariani o dei santi patroni. Sarebbe bene offrire ancora questo stile di comunione.” Don Vincenzo suggerisce allora di “attingere alla tradizione come alla devozione, o pensare anche a un bando, per arrivare a mettere definitivamente a punto un repertorio di canti comune a tutta Italia.”
Anna Valerio