La Veglia pasquale è sempre stata la festa di coloro che “sprecano” e immolano il proprio tempo, come in un gioco d’amore, per il Risorto. In questa “notte veramente gloriosa”, lo Sposo irrompe e il suo palpito sono i sacramenti che generano alla fede – Battesimo, Cresima ed Eucaristia –, memorie viventi della Pasqua, la più straordinaria risorsa pastorale della Chiesa.
Già dal II secolo abbiamo le prime attestazioni di una Veglia pasquale che si protraeva per tutta la notte fino al canto del gallo. Verso il termine del IV secolo, papa Siricio la definiva “notte grande del Battesimo” e Leone Magno gli faceva eco riferendo che i neofiti vi giungevano dopo la lunga e impegnativa preparazione quaresimale. Nel V secolo, si cominciò a ritualizzare l’accensione dei lumi posti in mano ai fedeli e delle lampade della chiesa. Il passo successivo fu l’uso di un cero pasquale, sul quale veniva cantato un poetico e diffuso inno di lode: l’Exultet. L’ascolto di molti brani biblici, intervallati da salmi e litanie, fungeva da preghiera di attesa, mentre un corteo partiva dalla basilica e si recava nel Battistero, dove i catecumeni, dopo essere stati unti con olio esorcistico, aver rinunziato al diavolo e professato la fede trinitaria, venivano immersi nella vasca battesimale nel nome della Trinità Santa e, usciti dalle acque, erano unti con olio “di esultanza” misto a profumo: il santo Crisma. Rivestiti di un’alba, una veste bianca lucente come il sole, e portando un cero acceso, i neofiti si recavano all’altare per nutrirsi del Corpo e del Sangue del Signore e bere latte e miele, perché ormai erano giunti alla Terra promessa: Cristo stesso.
Alla Veglia è stata data una struttura quadripartita. La Pasqua della luce, con la liturgia solenne del cero e della diffusione della luce visibile, sacramento dell’invisibile splendore del Risorto; la Pasqua della Parola di Dio, dove si riconosce come l’Agnello trafitto e risorto balzi tra le pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento, che solo da lui prendono senso in pienezza; la Pasqua della rinascita dall’acqua e dallo Spirito, nella quale Cristo partecipa la propria vittoria sulla morte e il peccato a ogni uomo che lo segue; la Pasqua della Cena eucaristica dell’Agnello, in cui ci è offerto il cibo dei pellegrini, il pane che anticipa il banchetto eterno della redenzione.
C’è stata una stagione, nella storia del rito cristiano, in cui si è assistito all’esilio dei sacramenti dalla Veglia, e ciò ne ha causato una trasformazione e contrazione, facendole perdere l’identità più autentica, fino a renderla una sorta di meditazione sulla Pasqua, durante la quale i cristiani farebbero la scelta “adulta” di concedersi “un paio d’ore” di riflessione e ascolto della Parola di Dio sulla “centralità del mistero pasquale”… Ma la più gloriosa delle Liturgie della Chiesa è assolutamente irriducibile a un elitario e freddo contesto di preghiera-riflessione teologica. Questa celebrazione è “sacrificio” del tempo, regalato a un amato. Restiamo svegli perché aspettiamo l’arrivo del nuovo Adamo, il Risorto: lo guardiamo da lontano per vedere se arriva, lo invochiamo, ed è lui che prende l’iniziativa di venirci incontro. Non lo si può delimitare, descrivere, spiegare, circoscrivere. È grazia da ricevere. È uno sposo da attendere fino a mezzanotte per corrergli incontro (cfr. Mt 25,6).
La Veglia pasquale consegnataci dal Messale di Paolo VI ha ricollocato la celebrazione della Pasqua annuale in una relazione stretta con i sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell’Eucaristia, memorie viventi dell’agire del Signore, conformazione dei credenti a lui crocifisso, sepolto e risorto. Va sempre curato con sensibilità teologica l’accompagnamento di coloro che ricevono l’Iniziazione, perché sia sostegno della loro fede sia “prima” che “dopo” la celebrazione dei tre sacramenti pasquali. Il fine dell’evento materno ed ecclesiale dell’Iniziazione è infatti “additare”, “far riconoscere” il mistero della vita divina nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, ma le azioni liturgico-sacramentali, pur donando in sé stesse la grazia di Cristo, non sono riconoscibili e fruttuose in modo meccanico: vanno aiutate a dare frutto attraverso una paziente mistagogia di fede, che permetta ai credenti di imparare a scoprire che la loro forza e la loro assoluta necessità dipendono dal fatto che chi agisce in esse è Gesù Cristo, “velato” e allo stesso tempo “presente” con tutta la sua calda luce.
Gianandrea Di Donna