Nel giorno della sua Dedicazione, la chiesa cessa di essere un edificio, una costruzione fatta di pietra, mattoni, cemento, vetro, marmo, per diventare – restando pietra, mattoni, cemento, vetro e marmo – il dito della fede puntato verso una dimora che ci attende tutti: il “posto” che Gesù ci ha preparato, la sua casa, che sarà la nostra casa. Mentre noi siamo pellegrini dentro questa storia, dentro l’esistenza che ci è data (come dice la Scrittura: “settanta, ottanta per i più robusti”…), Dio ha posto il segno visibile della sua presenza in mezzo a noi. Non la chiesa come edificio, ma il Verbo di Dio, Gesù di Nazareth, che, nato dal grembo purissimo della Vergine Maria, con la carne degli uomini cammina insieme ai due discepoli verso Emmaus – cioè cammina insieme a noi.
Il Signore, che ha detto Sarò con voi fino alla fine del mondo, nella sua misericordia senza limiti ha voluto darsi nella storia attraverso i segni di questo cosmo, del mondo che ha creato. Come ha assunto la nostra natura umana, così la sua presenza reale ed efficace ci viene comunicata attraverso il visibile, ma un visibile che reca in sé il mistero invisibile, cosicché ogni domenica le mani di una vecchia signora o di un bambino di dieci anni si tendono e ricevono un frammento di pane, e lì c’è il Signore crocifisso, sepolto e risorto. In un po’ d’acqua, c’è il Giordano nel quale un bimbo entra, è sepolto, muore con Cristo e risorge. In un po’ d’olio, c’è quel fuoco disceso dal cielo, che non brucia con le fiamme devastatrici della terra, ma con l’amore di Dio. Nelle mani di un uomo e di una donna che si stringono, l’unione che si genera è la stessa che Gesù ha voluto sulla croce con la sua Sposa: noi, la Chiesa. È tutto così il Vangelo. È tutta così la rivelazione. È tutto così il cristianesimo. È sublime, perché è tutto assolutamente umano e semplice, ma portando dentro di sé l’immensità di Dio.
Sono così anche il tempio visibile e i suoi elementi fondamentali. Noi chiamiamo l’edificio sacro “chiesa”, che non è una parola architettonica, ma biblica: ekklesìa: l’unione, il convergere, l’assemblea formata da coloro che celebrano l’Eucaristia, ascoltano Dio e obbediscono alla sua volontà, lo amano per amare i fratelli. Per questo la Dedicazione di una chiesa non è banalmente il vescovo che effonde un po’ di acquasanta benaugurale. Egli dedica il tempio visibile, come si scriveva un tempo sulla facciata di tutte le chiese, D. O. M., Deo Optimo Maximo. Chiedendo l’intercessione dei santi o di Maria, le chiese sono sempre dedicate a Dio, in quanto l’edificio è segno di noi che siamo di Dio.
Non si tratta di inaugurare, dunque, ma di togliere alla materia la brutalità e di renderla, poiché creata da Dio, orientata a lui. Il primo fondamentale elemento simbolico da considerare è il fatto che l’edificio sia composto di pietre. Ognuno dei mattoni è figura della comunione dei fedeli, che non risulta da un accordo, da una convenzione, ma nasce all’altare, dove il pane e il vino diventano il Corpo e il Sangue del Signore crocifisso, sepolto e glorificato, e si fanno carne della nostra carne e sangue del nostro sangue. Ecco quale cemento unisce le pietre.
All’inizio del rito della Dedicazione di una chiesa, il vescovo, i presbiteri e tutto il popolo entrano dal portale e il vescovo asperge le pareti della chiesa insieme all’assemblea, per ricordare la grazia battesimale. Il Battesimo è infatti “ianua Ecclesiae” – dicevano i Padri della Chiesa –, “porta della Chiesa”. Per questo, fin dall’antichità, il Battistero veniva edificato fuori dalle Cattedrali. Solo dopo essere stati battezzati i cristiani entravano nell’ekklesìa.
Quando sorsero le prime chiese parrocchiali, i presbiteri collaboratori del vescovo cominciarono a celebrare i sacramenti in sua vece, ma una piccola pieve non poteva avere un Battistero e allora si iniziò ad aprire, vicino alle porte della chiesa, sul lato destro del tempio (echeggiando Ezechiele e le immagini profetiche con cui Dio ci preparava a quell’acqua uscita insieme al sangue dal fianco di Gesù), una piccola cappella con il fonte battesimale. È lì che i bimbi entrano per la porta che è il Battesimo.
Il vescovo raggiunge poi la sede, che dovrebbe sempre essere laterale. Nell’Eucaristia non c’è una scena da dominare o un trono maestoso da occupare. Non c’è nessuna scena, nessun dominio, solo la voce di un ministro che genera la preghiera lanciandola come una freccia verso Dio, perché il centro dell’Eucaristia non sono il vescovo o i presbiteri suoi collaboratori. Essi valgono da piccolo segno, necessario in quanto, resi per grazia sacerdoti di Dio in virtù dell’imposizione delle mani, presentano al Padre l’offerta sacrificale. Ma il centro è il Signore: lui immolato, lui sepolto, lui risorto. I presbiteri e il vescovo devono presiedere la Liturgia e, allo stesso tempo, mandare il cuore, la mente, la fede, gli occhi dei credenti verso il fulcro e il centro: colui che celebra, il Sacerdote vero, Cristo. È lui che si offre. È lui che rende al Padre il sacrificio glorioso e dona il suo Corpo e il suo Sangue, Pane e Calice di salvezza.
Prima della celebrazione della Liturgia della Parola, il vescovo riceve da un lettore il Lezionario, lo mostra al popolo e dice:
Risuoni sempre in questo luogo
la Parola di Dio;
riveli e proclami il mistero di Cristo
e operi nella Chiesa la nostra salvezza.
Poi, come ogni domenica, il lettore, il salmista, e, se presente, il diacono, salgono uno dopo l’altro sull’ambone. Chi legge o canta la Parola del Signore deve infatti stare in alto, in quanto la salvezza viene dall’alto. Le luci dei ceri, i fiori, il profumo dell’incenso avvolgono la pietra dell’ambone, dove c’è un ministro che proclama, come l’angelo all’alba: “Non è qui: è risorto”. Ogni volta che celebriamo la Liturgia della Parola è come se spalancassimo il sepolcro. È come se si generasse una Pasqua e la primavera irrompesse piena di fiori e di profumi. Dall’ambone esce un canto nuovo, un alleluja, una gioia che non è di quelle effimere, ma è lui, il Vivente.
Il rito della Dedicazione di una Chiesa ha il proprio centro nella dedicazione dell’altare. Il vescovo canta assieme all’assemblea le litanie dei santi e poi su quella pietra pronunzia una lunghissima orazione, tra le più solenni che la Chiesa abbia mai composto. Dopo aver dedicato l’altare a Dio, lo si prepara come si faceva nell’antichità. Prima di tutto il vescovo lo unge con il santo Crisma – lo stesso olio che si usa per cresimare, per consacrare i vescovi e impregnare le mani dei presbiteri –, e poi unge le pareti della chiesa, cosicché ogni anno, sulle croci che verranno poste in quei punti, brilleranno nel giorno anniversario delle candele, memoria del momento in cui le pietre sono state unte con l’opera dello Spirito e sono state rese vive, segno dei credenti.
L’altare nudo, spoglio, viene quindi incensato per la prima volta e illuminato con l’accensione delle candele, dopo essere stato vestito del bianco lino, proprio come il sudario aveva avvolto il corpo santissimo del Signore esanime. Così, dove ora è posto il suo corpo sacramentale, c’è una stoffa candida che ricade ai lati fino quasi a lambire la terra, grande come la sindone che Pietro e Giovanni hanno visto nel sepolcro vuoto.
Bisognerebbe provvedere sempre ad assicurare all’altare un’edificazione architettonica proporzionata al suo significato. Non può essere un pezzo di legno mobile, perché il Signore è stato conficcato, appeso alla croce, sulla pietra del Golgota; perché la Chiesa fonda la propria fede – assurda per il mondo – su quella roccia, che è molto strana: dovrebbe significare stabilità, forza, durezza, ma è lì, sul Calvario. La sua è una strana durezza, è una strana forza, è una strana stabilità, in quanto lui è povero, è servo, è trafitto, è morente. E mentre ai piedi di quella roccia la bocca di Satana rideva la sua morte, il sangue sgorgato dal fianco del Signore soffocava l’antico serpente con l’amore. Questo è il duello prodigioso che celebriamo sull’altare.