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Punto dopo punto teologia e Scrittura prendono forma

Le suore missionarie francescane di Maria hanno cucito un capolavoro dell’arte capace di stare accanto a opere di Bellini e Tintoretto rubando loro la meraviglia. È una pianeta ricamata per san Pio X, esposta in una sala della mostra “La Maddalena e la Croce”, che rimarrà aperta fino al 13 luglio al Museo di Santa Caterina di Treviso.

Ovviamente ai piedi della croce c’è lei, l’apostola degli apostoli, che piange con il viso nascosto tra le mani. Un angelo vestito di violetto regge la scritta “Consummatum est”, mentre il suo compagno raccoglie in un ampio calice le gocce di sangue che escono dalle ferite del Signore. Il Figlio di Dio, caduto nella morte come in un sonno di indicibile tranquillità, è re e centro dell’opera. La catena degli angeli ritaglia una mandorla nell’oro dello sfondo e Gesù è di una bellezza radiosa e mite, il corpo perfettamente obbediente a una logica che è lui stesso e che gli uomini intravvedono solo in mezzo alle nubi dell’inquietudine. Il fiotto che sgorga dal suo costato è pieno di teologia e di Scrittura: una treccia di rosa e di bianco, sangue e acqua, che un altro calice, in mano all’angelo più giovane di tutti, beve per l’eternità.

Punto dopo punto, l’arte fa sì che ogni creatura intorno al Creatore abbia un’emozione leggibile sul viso. La Madre di Dio, in piedi a mani giunte, incapace di lasciarsi distrarre dai dubbi. Giovanni, che già sa contemplare il sangue raccolto nel calice e non più il volto umano del Signore. Il centurione caduto in ginocchio. Le donne impaurite e attratte da quel trionfo davanti a cui il mondo non può che provare imbarazzo. I tre soldatacci che si giocano ai dadi la tunica di Gesù, reliquia che ha custodito il mistero del Dio fatto carne. Il peggiore: il sacerdote che si volta sdegnoso a braccia conserte, come uno che ha liquidato un concorrente neanche degno di essergli messo a paragone.

Un sacro anonimato protegge l’identità delle artiste che hanno ricamato questo capolavoro perché il Santo Padre potesse celebrare degnamente la Liturgia. Per loro ci dev’essere solo il nome di figlie.

Anna Valerio

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Una veste è comune a tutti i ministri

 

Non è tanto opportuno, nell’ambito della Liturgia, usare il termine “paramenti”; troppo forte l’assonanza con la mondana “parata”, il nesso con l’identificabilità di un grado, di un ruolo, con le mostrine, il costume di scena. Per celebrare non si usano “paramenti”, ma vesti, e una è comune a tutti i ministri di qualsiasi grado. Guardiamo l’accolito accanto all’altare: egli indossa l’alba bianca. Il candore di cui si ricopre il ministrante è lo stesso del camice per la santa Messa che porta il Sommo Pontefice, o su cui un diacono aggiunge la stola e la dalmatica, un presbitero la stola e la casula, un vescovo la stola, la casula, la mitria, il pastorale e, se arcivescovo, il pallio. La veste delle vesti, il fondamento di ogni altra, è quella del Battesimo, figura del candore del Risorto. Ecco perché sarebbe indispensabile tornare all’uso del bianco perfetto, abbandonando lanette e morbidi beige, lontani dal nitore della rinascita pasquale, e, al contempo, ricordare che una veste liturgica ha bisogno di essere spiegata ed è il corpo che la spiega. Un presbitero, un diacono, un vescovo sguarniti di una nobile gestualità rendono l’abito muto, inutile.

I ministri, nella Liturgia, si sopravvestono, perché ciò che compiono è escatologico: anticipa, nel segno, la Pasqua nella sua pienezza. Il loro compito è “trattare” con la Pasqua ed è essa stessa a rivestirli di luce. Tra le persone che daranno corpo ai ministeri battesimali, non si dovrà allora mancare di trovare anche chi si prenda cura della sacrestia e faccia in modo che le vesti siano sempre lavate, pulite, mantenute integre, provvedendo a metterle a posto e a cucirle o a farle cucire dove ci sono strappi.

Gianandrea Di Donna

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