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Per celebrare il silenzio

 

All’inizio della Liturgia eucaristica, dopo la presentazione delle offerte, il presbitero dice: Orate fratresPregate, fratelli e sorelle, perché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente. A questa antica e veneranda formula offertoriale di invito alla preghiera, furono aggiunte (nel Messale Romano edizione II del 1983) altre formule di pari intensità, tra le quali: Pregate, fratelli e sorelle, perché il sacrificio della Chiesa, in questa sosta che la rinfranca nel suo cammino verso la patria, sia gradito a Dio Padre onnipotente.

Si comprende in modo chiaro come tale sosta debba essere intesa come una disposizione interiore a rinfrancare le forze, attingendo energia da quanto di più essenziale è dato alla Chiesa: la persona divina di Gesù Cristo. L’incontro, la sosta con lui, non è un astratto e vago ricordo di quanto egli ci avrebbe lasciato come eredità spirituale. Si tratta piuttosto di un tempo santo nel quale riconoscere un inatteso rovesciamento delle parti: non noi, non la Chiesa con le sue forze, ma Cristo agisce nella Chiesa, la regge, la conduce, la rinfranca e le dà vita. Mentre celebriamo i divini Misteri – e in modo particolarissimo l’Eucaristia – siamo chiamati a fare esperienza di come in essi il Signore agisca in prima persona. Potremmo dire che Liturgia cristiana è proprio una sosta che rinfranca, in quanto riconsegna a Cristo la guida della Chiesa e il primato della sua grazia nella vita pastorale.

Sarà spiritualmente fruttuoso riappropriarci di questa feconda e rinfrancante sosta che è la Liturgia(specie l’Eucaristia!), celebrata nel giorno del Signore risorto (e quotidianamente) nelle nostre parrocchie. Riappropriarci del suo essere sosta che le rinfranca, le corrobora, le nutre, le riaggancia all’essenziale, le rianima evangelicamente. Questo deve avvenire dando maggior fiducia alla potenza del rito in sé e non cadendo nell’ingenuità della didascalia didatticheggiante, tentazione perenne di una mal interpretata riforma liturgica.

A tal proposito, uno degli elementi rituali più importanti della celebrazione liturgica è il silenzio, spazio dell’agire divino, cui il Messale Romano dà più volte la qualifica di sacro. Esso viene definito come “parte della celebrazione”, capace di favorire l’attiva partecipazione dei fedeli (cfr. Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 30). Il silenzio, durante la Liturgia, è densissima esperienza antropologica dell’uomo che sosta, sospende le altre “attività”, per riconoscere, quasi estatico, l’invisibile presenza del Crocifisso risuscitato. Nel silenzio santo, verso il quale tutti i riti – se autenticamente celebrati – si dirigono, la Chiesa non tanto ascolta, ma “vede” il suo Signore.

Il silenzio santo, apparentemente inattivo, sospende ogni mediazione, ogni ministero, ogni parola e canto, affidando a tutti – fedeli laici e pastori indistintamente – la potestà di stare davanti a Dio faccia a faccia, tutti rivolti verso di lui.

In quel silenzioso spazio divino, come Chiesa del Signore risorto, sarà possibile riconoscere nella fede che il pane e il vino sono stati trasformati (transustanziati) per opera dello Spirito Santo nel Corpo e nel Sangue di Cristo, perché fosse trasformata (potremmo osare l’espressione transustanziata!) la Chiesa stessa in un solo mistico Corpo. Non è poca cosa, per la vita delle nostre parrocchie, darsi uno spazio apparentemente così poco dinamico, poco coinvolgente, poco emotivo, quale il silenzio, per riconoscere, con gli occhi della fede, che nella Liturgia la Chiesa riceve – per grazia – la luce del Vangelo, la gratuità della salvezza, la gioia della vita fraterna, la forza di amare, la speranza che non conosce tramonto…

La nostre parrocchie hanno l’opportunità di dare fiducia alla fede celebrata dal Popolo santo di Dio, lasciando che eserciti la sua azione sacerdotale, presentando a Dio l’offerta della sua vita, unita al Sacrificio di Cristo, credendo che questo stesso Popolo santo di Dio sappia – celebrando il silenzio – riconoscerlo presente nei Santi misteri, sappia adorarlo, sappia seguirlo sulla via del Vangelo, sappia obbedirgli, vivendo la vita fraterna e la carità umile e operosa.

I momenti più idonei per valorizzare il silenzio (indicati dai libri liturgici stessi), durante la celebrazione eucaristica, sono: durante l’atto penitenziale; dopo l’invito alla preghiera (“Preghiamo”) nelle orazioni;dopo le letture bibliche; dopo l’omelia; dopo la santa Comunione (specie dopo il Canto di comunione,senza dover concludere frettolosamente la celebrazione). È altresì possibile dare spazio al silenzio (al posto del ritornello) dopo ogni intenzione della Preghiera dei fedeli; il silenzio può essere valorizzato all’offertorio, pronunciando le preghiere di offerta (Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo…) sottovoce, come indica lo stesso Messale Romano. Densissimo il silenzio durante l’elevazione dell’Ostia e del Calice consacrati (nella Preghiera eucaristica), tenendo conto che non è mai ricordato a sufficienza il divieto assoluto di ogni sottofondo musicale: il grande e sacro silenzio dell’assemblea durante la Preghiera eucaristica è una delle forme più alte della sua partecipazione attiva. Il silenzio potrebbe essere molto proficuo spiritualmente durante la celebrazione delle Esequie cristiane; del Matrimonio(queste celebrazioni sono spesso “inquinate” da frastuono, applausi, elementi inadeguati al rito cristiano); durante la celebrazione della Liturgia delle Ore e durante l’Adorazione eucaristica. Può essere spiritualmente fruttuoso il recupero del silenzio in Quaresima: con l’uso della sola voce umana – senza l’accompagnamento dell’organo e degli altri strumenti musicali –, la possibile sostituzione di alcuni canti processionali con il silenzio (introito, offertorio, canto di Comunione)… Forme rituali molteplici aiutano non a “fare” silenzio ma a celebrare il silenzio.

Gianandrea Di Donna

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Matrimonio, una carne sola

Nei due decenni trascorsi da quando, nel 2004, è stato pubblicato il “nuovo” Rito del Matrimonio, la società ha vissuto cambiamenti inimmaginabili. La percezione dell’identità di uomo e donna è stata stravolta, eppure la novità che la Liturgia offriva alla Chiesa rimane vivida, con una ricchezza di segni che meritano di essere compresi e valorizzati come importanti risorse pastorali. Con questo obiettivo, l’Ufficio per la Liturgia e l’Ufficio di Pastorale della famiglia propongono il corso “Come la parrocchia celebra il Matrimonio”. Due incontri, mercoledì 19 e 26 marzo, alle 20.45, contemporaneamente nelle Chiese Parrocchiali di Solesino, Stra, Asiago e Sacro Cuore in Padova (e giovedì 20 e 27 marzo a Quero). Il corso è pensato tanto per i presbiteri e i diaconi, quanto per i laici che li affiancano nelle celebrazioni (in particolare i membri dei gruppi liturgici), ma anche per chi voglia approfondire dal punto di vista teologico il mistero di un Dio che si rivela come Amore increato.

La prima data sarà a cura dell’Ufficio Famiglia, che nei mesi scorsi ha raccolto presso varie parrocchie della Diocesi alcune domande su temi da ripensare per un aggiornamento. Nel secondo, l’Ufficio per la Liturgia si concentrerà sul rituale e la teologia del sacramento cristiano dell’amore coniugale, che a volte corre il rischio di essere inteso solo come il “momento magico” dove a farla da padroni sono gli affetti e le relazioni personali dei due sposi, i loro gusti, le loro musiche del cuore, le loro scelte estetiche. Una rinnovata e più accurata “introduzione ai misteri” permetterà di entrare nello spirito delle preghiere e delle molteplici azioni simboliche che compongono il rito del Matrimonio, scoprendone la stupenda ricchezza spirituale. Mentre crescono separazioni e divorzi, la Chiesa può opporre alla deriva lo sfolgorante annuncio di un Dio che è luce, bellezza, verità, carità, e continuare a offrire la cura amorosa dei suoi sacramenti.

Le riforme del 1975 e del 2004 mostrano la piena consapevolezza del legame tra le Nozze cristiane e l’Eucaristia, rendendo manifesto come sia solo la partecipazione alla Pasqua del Signore a permetterci di avere la capacità di un dono senza riserve, tanto nel campo dell’etica quanto in quello dei sentimenti. L’unione indissolubile e feconda, fino a diventare “una carne sola”, di un uomo e una donna non è un sogno romantico da costruire con le nostre forze; è un obiettivo di vita talmente alto da essere equiparabile alla vocazione a seguire Gesù che chiede di caricarsi del giogo soave della croce. La grazia effusa nella celebrazione del Matrimonio permette a una coppia di diventare simbolo, con la scelta di una vita insieme senza fratture, dell’alleanza eterna che Dio ha stabilito con l’umanità. Non va mai dimenticata questa prospettiva “dall’alto”.

La novità pastorale del 2004 sta soprattutto nei due modelli celebrativi proposti: il Rito del Matrimonio nella celebrazione eucaristica e il Rito del Matrimonio nella celebrazione della Parola di Dio, quest’ultimo secondo una duplice articolazione (tra battezzati e tra una parte cristiana e l’altra catecumena o non battezzata). La “flessibilità liturgica” è la modalità con cui la Chiesa prova ad andare incontro alla reale situazione di fede dei nubendi, senza costringerli a forzature. Se in certi casi l’Eucaristia risulta una proposta eccessiva, il Matrimonio “nella celebrazione della Parola di Dio” è l’occasione perché una coppia riprenda confidenza con l’annuncio della salvezza, primo passo sulla via di una rinnovata iniziazione cristiana.

Una prospettiva attualissima da considerare è la diffusa ministerialità che il sacramento del Matrimonio richiede. La parrocchia dovrebbe imparare a stringersi con calore intorno ai fidanzati, mettendo a disposizione i propri lettori, cantori, musicisti, accoliti e ministranti, le persone che si prendono cura dei fiori e dell’arredo, oltre che i catechisti e le coppie già sposate per l’accompagnamento. Ciò agirebbe in senso evangelizzatore sugli sposi, che farebbero un’esperienza davvero significativa di fraternità, e, al contempo, valorizzerebbe i carismi di chi presta il proprio servizio alla Chiesa. Ed è in questo senso che il corso desidera offrire gli spunti più concreti, secondo gli auspici del recente Sinodo diocesano, che ha individuato nella valorizzazione della ministerialità uno degli obiettivi fondamentali del futuro che ci attende.

Gianandrea Di Donna

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Dare fiducia al seme originario

«Riconoscenti per essere divenuti figli nel Figlio, facciamo ora memoria del Battesimo, dal quale, come da seme fecondo, nasce e prende vigore l’impegno di vivere fedeli nell’amore». Con il rito della memoria del Battesimo, gli sposi cristiani, partecipi del mistero pasquale di Cristo crocifisso e risorto, orientano le loro Nozze prima che come impegno, come risposta libera (e liberante) all’amore di Dio che li precede. Per questo la liturgia nuziale inizia con la memoria Baptismi, celebrata possibilmente presso il fonte battesimale, da raggiungersi con una processione.

Il rito, che prende il posto dell’atto penitenziale, si compone di una monizione iniziale, una invocazionein canto con acclamazione di ringraziamento per il dono del Battesimo dinanzi all’acqua benedetta; quindi l’aspersione dei nubendi e dell’assemblea, mentre si canta un’antifona adatta. Tutto è preceduto dall’atto rituale con cui sposi e assemblea raggiungono processionalmente il fonte battesimale, ricuperando un’autentica teologia dello spazio: le nostre assemblee, spesso “ingessate” (causa non ultima i banchi, di severa tradizione protestante, per assemblee “sedute” e “composte”, in ascolto del sermone) sono chiamate a ritrovare una tradizione cattolica (arcaica) che vuole assemblee “in piedi”, dinamiche, reattive ed esuberanti. Non “stare-vedere”, ma “andare-udire”! La scelta è quella di “tornare” al fonte, ianua Ecclesiœ (“porta di accesso” nella Chiesa), per dare fiducia a quel seme originario, il Battesimo, e ai suoi frutti di amore.

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Compagni di strada della famiglia nascente

Quando, nel 2004, i vescovi italiani hanno sentito il bisogno di offrire alle comunità cristiane il nuovo Rito del Matrimonio, le diocesi del Triveneto hanno accolto questo dono come un invito a ripensare anche l’accompagnamento pastorale delle coppie che domandano di unirsi nel sacramento. Quattro i protagonisti chiamati a entrare in gioco: fidanzati e accompagnatori, fisicamente impegnati a incontrarsi; Gesù maestro, presenza viva e discreta in ogni storia d’Amore; la comunità cristiana, riconoscente per il segno rinnovato di un Amore che continua a chiamare al dono di sé. Le storie dei fidanzati sono diventate spunto per riflessioni sui pilastri dell’essere in relazione, gli accompagnatori hanno iniziato a condividere le proprie esperienze di vita e di fede affrancandosi dalla rassicurante dimensione di ‘esperti’, la presenza di Gesù è stata condivisa nell’accostarsi insieme alla Parola e ai segni del celebrare… E la comunità cristiana? Oggi, a distanza di vent’anni, come si celebrano le Nozze cristiane nelle nostre comunità? Una possibile risposta è: sempre meno e con sempre meno consapevolezza.

Viene spontaneo invocare il calo demografico e l’aumento delle convivenze, la sensazione di crescente incertezza del futuro e la difficoltà di assumere un progetto per la vita che sembra serpeggiare tra le giovani generazioni. Emerge però anche la sensazione che la chiesa si accontenti di essere scenario passivo per celebrazioni sempre più abitate da professionisti del “giorno più bello della vita”.

Da questo dato muove la proposta formativa che stiamo portando in cinque zone della nostra diocesi, perché le nostre comunità si sentano chiamate a dare corpo e anima al celebrare le Nozze, anche quando a chiederlo sono coppie “sconosciute”. Se restiamo timidamente sulla soglia, invece di offrirci come compagni di strada alla famiglia nascente, rischiamo di lasciare un vuoto che resterà tale o sarà al più colmato da chi offre promesse di superficie, che non parlano al cuore umano come la Promessa attorno alla quale la comunità cristiana si raccoglie.

Chiara Barra e Federico Piovan

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Non manchi mai la parte eucaristica

Il “libretto” per la celebrazione del Matrimonio ha bisogno che si faccia preliminarmente la scelta delle letture; ciò potrebbe rappresentare per gli sposi un importante itinerario spirituale. Il pdf scaricabile della CEI con il Lezionario andrebbe consegnato loro all’inizio del corso di preparazione, così hanno modo di leggersi le poco più che ottanta pericopi tra Antico e Nuovo Testamento e orientarsi sulle più adatte, nel rispetto dei tempi dell’anno liturgico. Le coppie vanno informate che in Avvento e Quaresima è fatto divieto di celebrare solennemente le Nozze, in ragione del clima penitenziale, e che, qualora decidessero per un sabato del Tempo di Pasqua, dopo le ore 16 è necessario usare letture ed eucologia delle domeniche di Pasqua (se invece la celebrazione avviene prima, si possono scegliere nel Lezionario del Matrimonio tra quelle indicate per il Tempo di Pasqua).

Si eviti di fare libretti a metà, dove manca la parte eucaristica. O c’è tutto, o meglio limitarsi a un foglio con i canti. In copertina sarebbe importante che la dicitura fosse: “Celebrazione eucaristica con il rito del Matrimonio di…” o “Celebrazione della Parola di Dio con il rito del Matrimonio di…”, non “Luca e Francesca sposi” o “Luca e Francesca 2025”, scelte emotivo-affettive improprie. Non stiamo celebrando loro, ma l’Eucaristia e la Parola di Dio, ed è nel corso della Pasqua del Signore che avviene il Matrimonio di Luca e Francesca.

La fattura del libretto è bene sia semplice, per cui basta una spillatura, senza costosi nastri. Le immagini dovrebbero uscire dagli stereotipi, evitando tramonti, fedi incrociate e colombine che si baciano: una raffigurazione di Maria e del Signore, oppure una fotografia della chiesa parrocchiale, metafora della Chiesa sposa di Cristo e segno del luogo che accoglie la coppia.

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Il dialogo ecumenico aiuta a uscire da visuali ristrette

Invitando alla preghiera per l’unità dei cristiani, la Chiesa ci ricorda che “ogni  ecumenismo  è battesimale”, cioè attratto e suscitato dalla Pasqua del Signore. Il dialogo ecumenico è un modo straordinario per uscire dalle visuali ristrette, riscoprendo per esempio come l’approccio dei fratelli orientali al mistero della Trinità santa sia ancora quello dei Padri della Chiesa, meravigliati e adoranti di fronte alla sublimità di Dio. Dall’interpretazione della Scrittura (“anima della teologia”, affermava il Concilio Vaticano II) alla liturgia o all’ecclesiologia, la loro logica spirituale è rasserenata rispetto all’assillo di trovare soluzioni pratiche alle difficoltà, mentre spesso noi ne siamo pastoralmente strozzati. L’Oriente ha mantenuto un’ispirazione dall’alto, lo slancio del guardare a Dio e alla sua grandezza (e anche alla sua infinita “synkatabasis”, la “condiscendenza” con cui si è chinato sulle piccolezze del cosmo), al fatto che egli è tre-volte-Santo sempre e comunque. “Quando Dio è sceso fino a noi – scriveva un autore siriaco del IX secolo – la terra è diventata cielo, e quando il Figlio del nostro genere è stato elevato in alto, il cielo è diventato terra. Cielo e terra sono dunque una sola realtà”.

Se ci stacchiamo dalla bellezza e grandezza di Dio, rischiamo di scordare che la missione dei cristiani è proprio dare alla società ciò di cui essa manca. In un’epoca di tenebra, guerra, violenze, pensiamo troppo a disegnare strategie, e invece, chissà, se un ragazzo che ha una mezza idea di fare o farsi del male entrasse in chiesa e sentisse il canto gregoriano… forse il suo cuore si ammorbidirebbe.

L’Oriente ha mantenuto una relazione tra Dio e la vita concreta delle persone che non si piega a una declinazione di soluzioni pastorali e punta piuttosto a dare all’uomo l’acqua sorgiva che zampilla per la vita eterna. Quando gli orientali celebrano, hanno davanti non la politica e la società, ma i Cherubini e i Serafini… E questo è solo apparentemente un volare via dal reale.

Gianandrea Di Donna

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“Abbiate coraggio”

Il mese intensivo che l’Ufficio per la Liturgia ha dedicato alla formazione, in questo inizio del 2025, aveva al centro la sfida, impegnativa perché molto concreta, di esplorare per la prima volta la questione dei ministeri istituiti del lettore, dell’accolito e del catechista. Il Papa Francesco, in linea con gli spunti dati già da san Paolo VI nel 1974, l’ha affidata alle Chiese locali, chiedendo che vengano individuate tra i laici persone che, dopo aver acquisito le competenze necessarie, accettino di porsi in modo stabile a servizio delle Diocesi. I ministri ordinati – vescovo, presbiteri e diaconi – potranno richiedere il loro aiuto in vari ambiti, non ultimo quello della promozione e cura dei ministeri battesimali su cui faranno affidamento le parrocchie del futuro prossimo. È una novità e quindi va presentata, interrogata, capita, soppesata, gestita con delicatezza, ma anche amata, trattata con un sì nel cuore, di obbedienza e di speranza.

Abbiamo ascoltato questo sì dalle labbra dell’Arcivescovo di Torino, il Cardinal Roberto Repole, che ha portato la sua esperienza di pastore e teologo attento e generoso, della professoressa Emanuela Buccioni, che lo ha individuato tra le righe della Sacra Scrittura, del Reverendo Giuseppe Como, vicario episcopale dell’Arcidiocesi di Milano, che ha spiegato come la sua Chiesa si sia mossa prontamente, in obbedienza al Papa, per formare i primi candidati ai ministeri istituiti. E a questo sì siamo stati invitati con magnifica autorevolezza dal Prefetto del Dicastero per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti, il Cardinal Arthur Roche. Nel contesto familiare di Casa Madonnina, dove è stato ospitato come un pellegrino del Vangelo, ci ha rivolto parole che non possono non commuoverci e riempirci di forza: “Vi esorto ad avere coraggio, proprio voi che – figli di questa Chiesa di Dio che è in Padova – siete gli eredi di una tradizione cristiana lunga, forte e illuminata: siete gli eredi di San Prosdocimo e della martire Giustina; avete conosciuto l’ardimento del Doctor evangelicus Sant’Antonio di Padova, la genialità pastorale di San Gregorio Barbarigo; voi custodite le spoglie mortali dell’Evangelista della misericordia San Luca. I vostri Vescovi hanno inviato, tra i primi nel mondo, i missionari fidei donum; avete la grazia delle opere della Carità, quali l’Opera della Provvidenza Sant’Antonio, la Casa Madre Teresa di Calcutta, le Cucine economiche popolari per i più poveri; custodite preziosi tesori d’arte come il Battistero della Cattedrale e luoghi straordinari dove si sono celebrati e si celebrano i divini misteri; la vostra Biblioteca Capitolare conserva il Sacramentario Paduense, testimone della ricchezza straordinaria dell’epoca d’oro della Liturgia romana di Papa Gregorio Magno. Vi esorto, unitamente alle Diocesi che hanno avviato il processo di discernimento, formazione e istituzione di lettori, accolti e catechisti, a iniziare. La Chiesa ne ha bisogno!”

La storia mostra quanto sia stato importante, all’epoca della prima evangelizzazione, l’apporto di coloro che nelle comunità cristiane svolgevano il ministero di “maestri”, “lettori”, “accoliti”. I laici accoglievano il giogo soave e liberante del servizio in mezzo alle difficoltà più drammatiche, e così la fede nel Signore conquistava i popoli. Oggi le fatiche sono di segno opposto – l’indifferenza e l’aridità critica –, ma la risposta non può che essere chinarsi con slancio a lavare i piedi dei fratelli, correre con slancio a dare aiuto ai bisognosi, annunciare con slancio la vittoria della Croce sul male e sulla morte, accostarsi con slancio all’altare. Mostrare come questa sia l’unica scelta di vita ‘logica’, per un giovane in cerca di orientamento e per un vecchio in cerca di un orizzonte, per gli sposi e i genitori, i sani e i malati, i poveri e i ricchi, i reietti e i potenti, perché in un istante la nostra sicurezza materiale può venire meno, mentre tutto ciò che si fa per amore di Cristo e della sua Chiesa è speranza vera, abbondanza di vita, salvezza. Tutto: anche i nostri umani fallimenti.

Percorrere nei vari incontri l’ampio territorio diocesano, da Quero a Solesino, da Asiago a Strà, ha dato modo di riconoscere segni incoraggianti e problemi da affrontare. Uno tra tutti: la crisi del sacramento del Matrimonio, che rischia di essere accolta con rassegnazione. La sfida invece resta aperta, con la proposta, in marzo, di un breve corso in due date (in collaborazione con l’Ufficio di Pastorale della Famiglia) sulla celebrazione delle Nozze cristiane.

Anna Valerio

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Chiesa, amore dato e ricevuto

La rassegna di formazione “Gennaio alla Liturgia 2025” parte con una presenza importante: il Cardinal Roberto Repole, Arcivescovo di Torino, cui è stata chiesta un’introduzione sul ruolo dei ministeri istituiti nella vita della Chiesa, la sera di venerdì 10 gennaio, a Casa Madonnina, e la mattina di sabato 11, al centro “Ave” di Casalserugo. Il secondo appuntamento, venerdì 17 gennaio, sempre alle ore 21 a Casa Madonnina, sarà con la teologa Emanuela Buccioni, docente di Nuovo Testamento presso l’ISSR della Toscana “Santa Caterina”. La sua conferenza avrà come titolo: “«Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto» (Es 24,7). La Parola di Dio ispira ogni ministero nella Chiesa”.

È un’ispirazione impegnativa; ce lo mostra la stessa citazione biblica: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto». La traduzione italiana fa percepire la forzatura anche a livello grammaticale. L’ispirazione della Parola di Dio è impossibile da sintetizzare in modo piano. Prende la nostra logica e la rovescia, al punto che sembra venire prima l’operare dell’obbedire, il servire del capire. Così i ministeri nascono da un amore dirompente, che solo in un secondo momento si placa tanto da poter essere razionalizzato. Il fare precede l’essere: addirittura lo produce. E chi sia un po’ in confidenza con l’esperienza umana dell’amore sa che è così. Non si fa in tempo a riconoscere i (buoni) motivi per amare che già si ama e già l’amare è un fare, un dare, un trasformarsi, un vivere. La questione più grande che il ‘tema’ della ministerialità nella Chiesa propone è forse proprio questa: l’amore della Chiesa. L’amore che si dà alla Chiesa e l’amore che da essa si riceve.

Come possiamo amare la Chiesa? Ecco la risposta dei Vescovi nel documento finale del recente Sinodo sulla Sinodalità: “Ogni Battezzato risponde alle esigenze della missione nei contesti in cui vive e opera a partire dalle proprie inclinazioni e capacità, manifestando così la libertà dello Spirito nell’elargire i propri doni. È grazie a questo dinamismo nello Spirito che il Popolo di Dio, mettendosi in ascolto della realtà in cui vive, può scoprire nuovi ambiti di impegno e nuove forme per adempiere la propria missione.” (n. 58) Amare la Chiesa è cogliere ogni occasione, a partire dalle più vicine, per lasciar agire in noi l’amore di Dio, che la danza incontenibile dello Spirito porta nel mondo. È essere addirittura impazienti di curare il prossimo, incontrare chi è angosciato, accogliere chi è solo, soccorrere e consolare chi è povero, chi è malato, perdonare le offese. Quasi smaniosi di destinare il nostro tempo all’annuncio del Vangelo in tutte le sue forme: non tanto, e non solo, con le parole, ma con le opere, aiutando a costruire una Chiesa bella e buona, raggiungendo i fratelli che si sono persi sulle strade del mondo perché vi rientrino.

E come possiamo invece ricevere l’amore della Chiesa? Sempre i Vescovi, nello stesso documento, scrivono con paterna sapienza, a proposito della sensibilità dei laici che si mettono a disposizione con il loro servizio: “Alla Chiesa essi chiedono di non essere lasciati soli, ma di sentirsi inviati e sostenuti. […] Chiedono che il loro impegno sia riconosciuto per quello che è: azione di Chiesa in forza del Vangelo, non opzione privata. […] In una Chiesa sinodale missionaria, sotto la guida dei loro Pastori, le comunità saranno capaci di sostenere coloro che hanno inviato” (n. 59). L’amore che è stato dato deve ritornare: non per una forma estemporanea di gratitudine, ma quasi per necessità divina, di quel Dio che è Trinità: dove il Padre eternamente dona il proprio Amore (lo Spirito) al Figlio e il Figlio eternamente lo restituisce al Padre. Come Agostino intuisce nell’abisso luminosissimo del capitolo VIII del De Trinitate, l’unica vera necessità dell’universo è il libero dono del Padre e del Figlio, e l’unico modo che noi creature abbiamo per porci davanti al mistero della santissima Trinità è vivere con radicalità l’amore. Un amore pieno di fuoco e delicatezza, che “non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità” (1Cor 13,4b-6). Un amore generoso, operoso, che “tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (13,7).

Anna Valerio

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Di fronte al Mistero

 

La solennità del Natale del nostro Signore Gesù Cristo comincia a essere celebrata in un’epoca relativamente tarda. Fino al VI secolo, non esisteva una struttura di anno liturgico come la pensiamo oggi, scandita dai due grandi misteri che sono quasi i fuochi di un’ellisse: la Pasqua del Signore e la sua manifestazione nella carne, il Natale. La Chiesa dell’epoca sub apostolica si limitava a celebrare la Pasqua settimanale, la “domenica” (il “giorno del Risorto”), e solo in seguito si è data una Pasqua annuale, nella domenica che seguiva al plenilunio di primavera. Sarà nelle zone del nord Europa che comincerà a concentrarsi una particolare ritualità attorno al Solstizio d’inverno, il momento in cui le ore di luce, dopo il lento declino, riprendono a crescere. Nella città di Roma, i pagani erano soliti festeggiare, tra il 24 e il 25 dicembre, il Dies natalis Solis Invicti, il cosiddetto “Natale del Sole Invincibile”. I cristiani trasfigurano questa festa nel segno dell’“Oriens ex alto”, Cristo, e cominciano a fare memoria della sua incarnazione.

Il ciclo delle celebrazioni della Pasqua settimanale si arricchisce così, prima, della Pasqua annuale, con la sua Veglia, grembo dei sacramenti dell’Iniziazione cristiana, e poi, qualche secolo più tardi, del Natale, nel Dies natalis Solis Invicti. Intorno a queste due solennità si articola un tempo che le prepara e le segue. Nel caso della Pasqua, è la Quaresima, culminante nel Triduum Sanctum, cui succede il Tempo di Pasqua come un unico giorno dove l’alleluja non si spegne. Per il Natale, l’Adventus, periodo di attesa trepidante della salvezza, connotato da un sapore nordico; una sorta di Quaresima invernale, nata perché i vescovi non riuscivano più a smaltire il numero di catecumeni che dovevano essere battezzati nella notte di Pasqua e avevano cominciato a fissare, oltre alla “Madre di tutte le veglie”, un’altra data nel corso dell’anno in cui celebrare i Battesimi, e questa era spesso l’Epifania.

Se la solennità di Pasqua è preceduta da un periodo di preparazione immediata nella cosiddetta Settimana Santa, anche la memoria annuale dell’incarnazione del Signore viene anticipata pedagogicamente da un ciclo di otto giorni, che prende il nome di Ottavario e non ha niente a che fare con la tradizione popolare della novena di Natale. Le “ferie maggiori” dell’Ottavario si caratterizzano per la presenza, nella celebrazione dei Vespri, di antifone dai testi teologicamente impegnativi, che cominciano tutti con il vocativo “O”: O Sapientia (il 17 dicembre), O Adonai (il 18), O Radix Iesse (il 19), O Clavis David (il 20), O Oriens (il 21), O Rex gentium (il 22), O Emmanuel (il 23). Predisposte per l’ora vespertina, l’ora del farsi carne del Verbo di Dio, vengono cantate tre volte: all’inizio e alla fine del Magnificat e – da dopo la riforma del Concilio Vaticano II –, seppur con un testo più essenziale, come canto al Vangelo. Dal punto di vista musicale sono molto simili tra loro, con alcuni aggiustamenti sulla base del testo, perché il canto gregoriano nasce a servizio delle parole e si piega volentieri a modificare, seppur di poco, l’andamento melodico.

Il Padre Guéranger – che rifondò, nell’Ottocento, la grande abbazia di Solesmes in Francia dopo la Rivoluzione francese – ebbe a dire che le antifone “O” sono “il midollo di tutto l’Avvento”. Nel contesto dell’Ottavario, si possono riconoscere le sue tre dimensioni tipiche, che guardano al Cristo che verrà alla fine dei tempi – nella prima parte; al Cristo che è venuto nella carne – nella seconda; e infine al Cristo che continua a venire.

La grandezza dei testi delle antifone maggiori e della musica che li trasfigura di assoluta bellezza ci permette di stare di fronte al mistero della rivelazione di Dio nella carne del Verbo. Hanno questa ampiezza, questa ricchezza, questa ‘gravità’, perciò le melodie vanno intonate molto basse, perché la Liturgia sta dicendo: “Attenzione, tu sei davanti a Gesù bambino, ti prepari a incontrarlo, l’infante deposto nella mangiatoia. Eppure lui è la Sapienza che esce dalla bocca dell’Altissimo.” Chiamare il “Puer natus” (come lo apostroferà l’introito del mattino di Natale) “O Sapienza” ci invita a tenere un atteggiamento tutt’altro che folcloristico, da stelline e zampogne. A considerare che, dopo aver ascoltato, a mezzanotte, il suggestivo e caro racconto dei pastori del Vangelo di Luca, nella Messa del giorno la Chiesa ci fa ascoltare il canto altissimo del prologo di Giovanni: “E il Verbo si fece carne”.

Gianandrea Di Donna

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Nel nostro operare il bene opera la volontà del Signore

 

Nel pellegrinaggio religioso di altri tempi si lasciava tutto, come i discepoli che hanno seguito Gesù. Si faceva testamento, se si possedeva qualcosa, e così si faceva un bilancio della propria vita: per chi ho vissuto, che ne ho fatto di quello che ho ricevuto, a chi sono debitore? La strada poi era una sorpresaanche per quanti seguivano itinerari già collaudati e trovavano sulla strada monasteri ospitali. Chi avrebbero incontrato? Persone che offrivano ristoro e, se ce n’era bisogno, cure? O diffidenti, impaurite da pellegrini incontrati in precedenza? La meta era ‘aperta’.

Il pellegrino faceva esperienza di essere ‘straniero’, ‘strano’ per chi incontrava, come straniera è ogni persona che è nata e abita qui, nella mia stessa terra, ma è spiazzata, tagliata fuori da ‘alfabeti’ nuovi che a chi li conosce rendono veloci, pratiche, sicure molte comodità: ‘alfabeti’ che esprimono una creatività sempre più raffinata, ma complessa, imprevedibile. Straniero è ogni nostro figlio che deve inserirsi in un mondo spesso già ‘pre-notato’, ‘pre-visto’, precisato, efficiente, ‘perfezionista’, dove non c’è posto per l’errore, per il non farcela, per il non sapere, per il non essere efficienti.

La prima lettera di Pietro ricorda ai cristiani, ‘stranieri e pellegrini’ (2,11), che essi sono “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui” (v. 9). Non c’è posto sulla terra in cui Dio non voglia raccontarsi proprio attraverso ‘pellegrini’ che testimoniano le meraviglie che ha operato nella loro vita. Lui li rende pellegrini di speranza, ‘che, operando il bene, chiudono la bocca’ a chi non ha incontrato la sua misericordia.

Possiamo disperare di trovare/ritrovare una comunione, o sperare che, mentre cerchiamo di operare il bene, il Signore operi la sua ‘volontà’, inventando strade nell’incomprensione, nel disprezzo, nella condanna, in una parola: nella croce. Una croce che non è mai solo nostra. Anche questo è dono di quel simbolo che siamo chiamati a vivere insieme l’anno prossimo, il Giubileo.

don Giuseppe Toffanello

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