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Alla sera ospite è il pianto e al mattino la gioia. Ribellarsi al nostro tempo

 

 

ALLA SERA OSPITE È IL PIANTO E AL MATTINO LA GIOIA
RIBELLARSI AL NOSTRO TEMPO

 

Gianandrea Di Donna

 

Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato,
non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me.
Signore, mio Dio, a te ho gridato e mi hai guarito.
Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi,
mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa.
Cantate inni al Signore, o suoi fedeli,
della sua santità celebrate il ricordo,
perché la sua collera dura un istante,
la sua bontà per tutta la vita.
Alla sera ospite è il pianto
e al mattino la gioia.

Salmo XXIX (XXX), 2-6

 

 

Il tempo reso Liturgia, ovvero celebrare il tempo mentre esso va dispiegandosi, risulta quasi un’assurdità. Per farlo occorre ribellarsi alle molte cose da fare: le mie cose. Chi celebra esce dal mondo ed entra in un ritmo atemporale, in cui formule, riti, canoni e testi rubano tempo al mio tempo, alla mia preghiera, al raccoglimento del mio cuore, alla mia intercessione per il mondo e i fratelli.

La Liturgia delle Ore è un carico, un lavoro che richiede intelligenza teologica e rituale. Impone una sorta di lotta contra psalmos – i poetici, millenari e valorosi canti di Davide, intrisi delle vicende di un popolo o dei drammi del cuore umano –, un’ascensione anagogica lungo le ripide pareti del Salterio. È fissata da un canone rituale, prescritta per introdursi nel fluire delle nostre opere e giorni chiedendo di guadarli fino all’altra invisibile riva del tempo. Risulta certo più semplice l’appello nato dalla mia realtà, da ciò che sono, vedo, sento e vivo, eppure la preghiera – esperienza ardua e scomoda per l’uomo – è la discrepanza tra il mondo e il Regno, tra il nostro essere “di Dio” e il nostro essere “nel mondo” (Gv 17, 14-17); mostra lo scarto tra il sæculum in cui giungiamo, esistiamo e ci muoviamo e ciò in cui crediamo, cui aneliamo e che speriamo.

«In generale l’uomo non prega volentieri. È facile che egli provi, nel pregare, un senso di noia, un imbarazzo, una ripugnanza, una ostilità, addirittura. Qualunque altra cosa gli sembra allora più attraente e più importante. Dice di non aver tempo, di avere altri impegni urgenti, ma appena ha tralasciato di pregare, eccolo mettersi a fare le cose più inutili»[1]. La preghiera è dunque una strada di conversione (μετάνοια). Il tempo consacrato alla Liturgia sospende ogni altra attività per permettere a Dio di compiere la sua salvezza. Esige di essere, appunto, una ribellione, una critica del reale (posto che il mondo, ambivalente, è luogo “dell’amore di Dio”, ma pure “delle tenebre”) per accedere all’Unico reale: Cristo. La Chiesa è davvero “utile” al mondo quando ne è libera (cfr. Sacrosanctum Concilium 10) e si consegna alla Provvidenza. La Liturgia è il nostro sacrificium laudis, in cui offriamo noi stessi (cfr. Eb 10) e le nostre “menti” ribelli allo scandalo della Croce. È tempo immolato a Dio, il tesoro più raro nascosto in un campo, la perla di grande valore (Mt 13, 44-45). In fondo: Ora et labora.

Gesù pretende che la preghiera sia perseverante e insistente (Lc 11, 5-13), libera dalla paura di non essere esauditi (Mc 11, 22-24), mai vanagloriosa e ipocrita (Mc 12, 38-40). I monaci del deserto egiziano recitavano il Salterio senza interruzione per tenere fissa la mente in Dio. L’amante usa mille nomi – anche senza senso – per chiamare l’amato; la mamma si rivolge al suo bambino con i più vari appellativi. E se da una parte non dobbiamo compiacerci dell’abbondanza di parole come i pagani (Mt 6, 7-8), dall’altra è necessario che la preghiera sia un torrente, fluendo senza pause dalle labbra. Così appariva l’interminabile serie di Kyrie, eleison dei cristiani d’Oriente, fiume in piena che generava un’assunzione implicita, inconsapevole della Parola di Dio; come quando si impara una lingua straniera vivendo tra coloro che la parlano. Nella preghiera oraria si sedimenta una specie di inconscio spirituale (il Verbo), che pone nel cuore del discepolo un piccolissimo seme che “germoglia e cresce, come, egli stesso non lo sa” (Mc 4, 27). La Liturgia delle Ore agisce in noi senza che ce ne accorgiamo, diventando una memoria muscolare[2]. Così le dita del musicista trasformano quasi inconsciamente le note in interpretazione, in musica…

Nel momento in cui si prega senza esitazione con le nostre parole umane e pensando di farlo bene, forse si scorda l’anima della preghiera: che è riconoscersi poveri, bisognosi, vuoti. Ciò che diamo a Dio semplicemente ritorna da dove è arrivato. La preghiera liturgica, di contro, ci aiuta a prendere le distanze da noi stessi, ci emancipa dalle consolazioni spirituali narcisistiche, controbilanciando la pur necessaria orazione personale (tu quando vuoi pregare Mt 6, 6). Quando gli Apostoli hanno chiesto al Signore di insegnar loro a pregare, Gesù ha comandato di farlo così (oὕτως Mt 6, 9).

La preghiera non può essere facile. Gli ebrei la designano con il termine abodah, che indica il servizio incondizionato al padrone, tipico dell’uomo che si dedica a Dio, del contadino che lavora[3], della bestia da soma che ara. La Liturgia è detta perciò servitium, Dienst, Holy service, Slujba, Opus Dei. La preghiera liturgica è fatta di fatica fedele: prendete il mio giogo (Mt 11, 29) Essere cristiani significa lavorare intensamente attraverso le prove, il sacrificio, la croce.

Il tempo dell’uomo non è un comodo circulus anni durante il quale i cicli delle stagioni e della vita tornano sempre uguali a se stessi. Se da una parte Qoelet vede che quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà, perché non c’è niente di nuovo sotto il sole e tutte le opere che si realizzano sotto il sole sono vanità e un correre dietro al vento (cfr. Qo 1, 9.14), dall’altra, al termine della sua disincantata e scettica concezione, l’Ecclesiaste approda in un dirompente annuncio: «Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché qui sta tutto l’uomo» (Qo 12, 13). Proprio in questo modo il Verbo di Dio è entrato nella storia, quando, nella pienezza del tempo, si è fatto carne (Gv 1, 14) e ha posto la sua tenda tra le nostre… È entrato, cioè, ponendo un’interruzione al fluire di tutte le cose che come il sole sorgono e tramontano e come il vento girano e vanno e sui loro giri ritornano (cfr. Qo 1, 5-6). L’incarnazione è il canto di Dio che interrompe la nostra monotonia: «Cristo Gesù, il sommo sacerdote della nuova ed eterna alleanza, prendendo la natura umana, ha introdotto in questo esilio terrestre quell’inno che viene eternamente cantato nelle dimore celesti. Egli unisce a sé tutta l’umanità e se l’associa nell’elevare questo divino canto di lode»[4]. L’inno che eternamente echeggia nelle sedi celesti è il canto profuso dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo, è l’immagine dell’eterna relazione delle tre Persone divine, che cantano l’Uno all’Altro la loro stessa vita, l’Amore increato.

Per mezzo della preghiera oraria della Chiesa, l’orazione sacerdotale che Cristo ha pronunciato nella carne mentre entrava nella sua Pasqua (cfr. Gv 17) continua. La Liturgia delle Ore è preghiera fatta attraverso l’unico Mediatore (1 Tm 2, 5), è la voce di Cristo che canta al Padre l’eterno Amen della figliolanza, dell’obbedienza, dell’amore fino alla morte di Croce(cfr. Fil 5, 6-11); partecipa dell’Amore-Spirito dell’Unigenito per l’Ingenerato. Interrompendo il tempo, “Cristo prega per noi, prega in noi ed è pregato da noi[5], e permette alla Chiesa di avere accesso, per mezzo suo, al Padre (cfr. Rm 5, 2). Il canto-amore delle Persone divine è la voce inudibile (“nelle dimore celesti”, intratrinitaria) che il Padre soffia (lo Spirito) al suo Logos e, sacramentalmente, quella udibile (“introdotta in questo esilio terrestre”, extratrinitaria) che il Padre, squarciando i cieli, grida come un rombo mentre si posa dolcemente, in forma di Colomba, sul Figlio. Dentro la molteplicità del tempo dell’uomo, irrompe come un tuono dal cielo la pienezza del tempo voluta da Dio, il “sì” al Padre di Cristo, disposto a scendere fino agli inferi portando con sé il Soffio dello Spirito del Padre e di lui Figlio, Spirito che, come un robustissimo filo rosso d’Amore, lo farà poi risalire fino alla destra del Padre.

L’inno delle dimore celesti diventa, nella storia, la Pasqua: il canto dell’Amore trinitario entrato nel mondo, l’unico che Dio Trinità volesse introdurvi. In questa logica, la Liturgia delle Ore interrompe ogni mio tempo per far sentire il suono di quell’inno ed essere il tempo nuovo dell’Uno. Va ridimensionata (se non superata) l’idea che la Liturgia Horarum sia una nobile intercessione con cui chi la celebra “prega per”. Essa è la memoria sacramentale, vivente e palpitante del Mistero pasquale, con cui riconosciamo come le membra del Corpo mistico di Cristo partecipino al “passaggio” del Figlio-Capo da questo mondo al Padre.

In ragione dell’irruzione per cui le opere e i tempi dell’uomo cedono il passo a Colui che è il Principio e la Fine, l’Alfa e l’Omega, la Liturgia delle Ore realizza la propria virtus simbolica trasfigurando i due cardini cosmici della notte e del giorno. Si può ritenere che le Lodi mattutine e i Vespri siano il centro della celebrazione quotidiana dell’Ufficio[6]. I Vespri coincidono con il tramonto del sole, quando la notte ingoia il giorno e l’ombra della morte si affaccia ai palpiti dell’uomo, tragicamente destinato alla tenebra; il digradare della luce dice la vita che declina, il cosmo che si fa crepuscolo di finitudine e sgomento (basti pensare all’angoscia dei malati, appena è sera). Celebrare il tramonto significa assumere il declino di ogni carne, associandolo – ecco il mistero – all’evento che è l’offerta sacrificale del Signore Gesù, innalzato sulla Croce nell’ora del sacrificio vespertino del Tempio, per essere il vero Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Il canto del Magnificat, una pericope evangelica che ritorna immutabile a ogni Vespro, esprime come “vertice” rituale la memoria quotidiana che la Chiesa fa della nostra redenzione: “Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”. Il cantico della beata Vergine Maria dice l’ora nella quale la Serva del Signore, figura della Chiesa obbediente e credente, si unisce all’immolazione del Servo, entrato nel tramonto della morte per liberare chi giace prigioniero di essa e dei suoi vincoli.

Analogamente, le Lodi mattutine vengono celebrate all’aurora, quando la luce vince la tenebra e riprendono le attività dell’uomo, la natura spande i propri colori e gli animali si levano in cerca di cibo. Al mattino tutto rinasce. Perfino l’animo umano si rassicura e chi soffre ricupera il desiderio di vivere. Lungo la linea luminosa dell’orizzonte, mentre le Mirofore si recavano al sepolcro, Cristo, alzatosi dalla morte e calpestando l’Inferno, si è manifestato come il Risorto. Egli, il Vivente, ha riconsegnato all’uomo la vita nuova. «Bisogna pregare al mattino, per celebrare con la preghiera mattutina la risurrezione del Signore»[7], il quale è “luce vera che illumina ogni uomo” (Gv 1, 9) e “sole di giustizia” (Ml4, 2) che “sorge dall’alto” (Lc 1, 78). Il canto del Benedictus, anch’esso celebrazione di una pericope evangelica, esprime come “vertice” rituale la memoria quotidiana che la Chiesa fa della Risurrezione: “grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge (Oriens ex alto), per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte”. Il cantico di Zaccaria è l’esultanza per la vittoria di Cristo sulle tenebre e sulla morte per mezzo della gloriosa Risurrezione.

Se la Liturgia delle Ore è “scomoda” irruzione della Pasqua, essa deve “scomodare” tutto il popolo di Dio e non è riducibile a una mera deputazione giuridica data ad alcuni[8]. Non si tratta di un dovere estrinseco, ma appartiene all’intima natura di una Sposa “chiamata” alle nozze pasquali dell’Agnello. È quasi una Veglia Pasquale quotidiana: «è un attardarsi con chi si ama, come fanno i ragazzi, quando preferiscono rimanere fuori fino all’alba insieme agli amici piuttosto che assecondare l’urgenza biologica del sonno. Non è poi così lontana dalla logica degli after-hours… L’uomo sfida il tempo, lo perde nelle cose che lo ricreano, quando lo straordinario irrompe nell’ordinario e ci trasforma. L’amore non ha orologio in mano. La Liturgia trabocca di inutilità. Nulla in essa è ‘funzionale a’, ma è tutta fatta di tempi che si dilatano»[9].

 

Vale la pena ribellarsi al nostro tempo.
Se alla sera ospite è il pianto della mia morte, non sono solo: Cristo scende con me negli inferi, perché al mattino io possa cantare la gioia della sua e mia risurrezione.
Se notte è il mondo, il Sangue dell’Agnello brilla di luce.
Una sola cosa devo fare: ribellarmi al mio tempo per celebrare le nozze dell’Agnello.
Alla fine una sola parola mi dà pace: Alleluja.

 

 

[1] R. Guardini, Introduzione alla preghiera, Brescia 19877, 1).

[2] L’antica pratica di leggere pronunciando le parole con le labbra era in connessione con la memoria visiva della parola scritta, quella uditiva della parola ascoltata, quella muscolare della parola pronunciata. Cfr. B. Stock, “Lectio divina” e “lectio spiritualis”: la Scrittura come pratica contemplativa nel Medioevo, in «Lettere italiane», n. 2, 2000, 169-183. «Leggere un testo e impararlo a memoria nel senso più forte di questo atto, cioè con tutto il proprio essere: con il corpo poiché la bocca lo pronuncia, con la memoria che lo fissa, con l’intelligenza che ne comprende il senso, con la volontà che desidera metterlo in pratica» J. Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio, Sansoni, Firenze 1965, 94.

[3] L’espressione “culto” deriva da colere, coltivare.

[4] Sacrosanctum Concilium, 83.

[5] Agostino, Commento al Salmo LXXXV,1; CCL 39,1176.

[6] «Le Lodi come preghiera del mattino e i Vespri come preghiera della sera, che, secondo la venerabile tradizione di tutta la Chiesa, sono il duplice cardine dell’Ufficio quotidiano, devono essere ritenute le Ore principali e come tali celebrate» (Sacrosanctum Concilium 89).

[7] Cipriano, De oratione dominica, 35: PL 4, 561.

[8] Per cui l’obbligo canonico da intendersi come præceptus paschalis e non come garanzia d’intercessione.

[9] G. Di Donna, La Veglia Pasquale e gli After-Hours. Considerazioni sul rito cristiano, Valore Italiano Editore, Roma 2022, 91.

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La preghiera dei fedeli

Il clima che avvolge la Preghiera dei fedeli o universale è quello della supplica. Ognuno di noi si abbandona al Padre e gli apre il cuore, chiedendogli senza riserve aiuto nelle difficoltà del vivere e protezione. Non è il caso di ricorrere a molte parole per ‘spiegare’ al Creatore di ogni cosa il nostro bisogno di lui. Bastano alcuni cenni, ispirati dalla carità e seguiti dal grido che i ciechi di Gerico ci hanno insegnato: “Kyrie, eleison” – che significa (suggerisce il padre Cesare Giraudo SJ): “Làsciati commuovere per noi!”. Gli diciamo: “Signore, guardaci! Guarda i tuoi figli bisognosi…”. Una supplica piena di candore e di affidamento, tant’è che, nelle Liturgie di Gerusalemme dei primissimi secoli del cristianesimo, risuonava dalla bocca dei bambini. Racconta la pellegrina Egeria: “Mentre il diacono pronunzia i nomi legati alle singole intenzioni, vi sono sempre moltissimi piccini, che rispondono Kyrie, eleison[…]; le loro voci sono infinite”. Nella Preghiera dei fedeli, la Chiesa si fa bambina, si riconosce creatura, chiede con umiltà e innocenza l’abbraccio del Padre. Sarebbe molto importante allora che le intenzioni esprimessero (sempre rispettando l’ordine prescritto dall’Orazionale) le necessità concrete del mondo e dei fratelli, che la settimana appena trascorsa ci ha fatto scoprire o intuire.

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Quattro liturgie, ciascuna è Pasqua

La Veglia non è un insieme di elementi rituali che per gradi vanno dalla benedizione del fuoco nuovo fino al culmine di un tripudio di “emotività” pasquale, come se si realizzasse un crescendo verso il “momento della Risurrezione”. Il rito è composto di quattro Liturgie (Lucernario, Liturgia della Parola, Liturgia battesimale e Liturgia eucaristica), che sono, ciascuna, compiutamente Pasqua.
La Pasqua di Cristo è una colonna di fuoco (Es 13,21) e di luce, nella quale siamo stati immersi per essere illuminati dal suo amore.
La Pasqua di Cristo è la persona del Verbo che interpreta tutte le pagine delle Scritture mostrando ciò che si riferisce a lui e ci interpella fino a immergerci in sé.
La Pasqua di Cristo è il passaggio del Mar Rosso, l’immersione nel Giordano, perché, usciti e rinati, veniamo crismati, abitati dallo Spirito Santo che prega in noi (Rm 8.26), ci porta a Cristo, intercede per noi, aiuta la nostra incapacità, illumina la nostra mente e scalda il nostro cuore guidandolo a Dio. Attraverso di lui si realizza l’unione a Cristo, poiché è nello Spirito del Figlio di Dio che siamo resi figli. L’Apostolo ci ricorda che «nessuno può dire “Gesù è Signore”, se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1 Cor 12,3). E nelle Catechesi sui Sacramenti, sant’Ambrogio afferma: «Chi si inebria dello Spirito è radicato in Cristo».
La Pasqua di Cristo è il suo Corpo e il suo Sangue nell’atto di offrirsi per noi e per la nostra salvezza: mangiando e bevendo questo cibo spirituale, siamo immersi nella sua vita donata e glorificata.

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Corriamo incontro allo Sposo, il Risorto

La Veglia pasquale è sempre stata la festa di coloro che “sprecano” e immolano il proprio tempo, come in un gioco d’amore, per il Risorto. In questa “notte veramente gloriosa”, lo Sposo irrompe e il suo palpito sono i sacramenti che generano alla fede – Battesimo, Cresima ed Eucaristia –, memorie viventi della Pasqua, la più straordinaria risorsa pastorale della Chiesa.
Già dal II secolo abbiamo le prime attestazioni di una Veglia pasquale che si protraeva per tutta la notte fino al canto del gallo. Verso il termine del IV secolo, papa Siricio la definiva “notte grande del Battesimo” e Leone Magno gli faceva eco riferendo che i neofiti vi giungevano dopo la lunga e impegnativa preparazione quaresimale. Nel V secolo, si cominciò a ritualizzare l’accensione dei lumi posti in mano ai fedeli e delle lampade della chiesa. Il passo successivo fu l’uso di un cero pasquale, sul quale veniva cantato un poetico e diffuso inno di lode: l’Exultet. L’ascolto di molti brani biblici, intervallati da salmi e litanie, fungeva da preghiera di attesa, mentre un corteo partiva dalla basilica e si recava nel Battistero, dove i catecumeni, dopo essere stati unti con olio esorcistico, aver rinunziato al diavolo e professato la fede trinitaria, venivano immersi nella vasca battesimale nel nome della Trinità Santa e, usciti dalle acque, erano unti con olio “di esultanza” misto a profumo: il santo Crisma. Rivestiti di un’alba, una veste bianca lucente come il sole, e portando un cero acceso, i neofiti si recavano all’altare per nutrirsi del Corpo e del Sangue del Signore e bere latte e miele, perché ormai erano giunti alla Terra promessa: Cristo stesso.
Alla Veglia è stata data una struttura quadripartita. La Pasqua della luce, con la liturgia solenne del cero e della diffusione della luce visibile, sacramento dell’invisibile splendore del Risorto; la Pasqua della Parola di Dio, dove si riconosce come l’Agnello trafitto e risorto balzi tra le pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento, che solo da lui prendono senso in pienezza; la Pasqua della rinascita dall’acqua e dallo Spirito, nella quale Cristo partecipa la propria vittoria sulla morte e il peccato a ogni uomo che lo segue; la Pasqua della Cena eucaristica dell’Agnello, in cui ci è offerto il cibo dei pellegrini, il pane che anticipa il banchetto eterno della redenzione.
C’è stata una stagione, nella storia del rito cristiano, in cui si è assistito all’esilio dei sacramenti dalla Veglia, e ciò ne ha causato una trasformazione e contrazione, facendole perdere l’identità più autentica, fino a renderla una sorta di meditazione sulla Pasqua, durante la quale i cristiani farebbero la scelta “adulta” di concedersi “un paio d’ore” di riflessione e ascolto della Parola di Dio sulla “centralità del mistero pasquale”… Ma la più gloriosa delle Liturgie della Chiesa è assolutamente irriducibile a un elitario e freddo contesto di preghiera-riflessione teologica. Questa celebrazione è “sacrificio” del tempo, regalato a un amato. Restiamo svegli perché aspettiamo l’arrivo del nuovo Adamo, il Risorto: lo guardiamo da lontano per vedere se arriva, lo invochiamo, ed è lui che prende l’iniziativa di venirci incontro. Non lo si può delimitare, descrivere, spiegare, circoscrivere. È grazia da ricevere. È uno sposo da attendere fino a mezzanotte per corrergli incontro (cfr. Mt 25,6).
La Veglia pasquale consegnataci dal Messale di Paolo VI ha ricollocato la celebrazione della Pasqua annuale in una relazione stretta con i sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell’Eucaristia, memorie viventi dell’agire del Signore, conformazione dei credenti a lui crocifisso, sepolto e risorto. Va sempre curato con sensibilità teologica l’accompagnamento di coloro che ricevono l’Iniziazione, perché sia sostegno della loro fede sia “prima” che “dopo” la celebrazione dei tre sacramenti pasquali. Il fine dell’evento materno ed ecclesiale dell’Iniziazione è infatti “additare”, “far riconoscere” il mistero della vita divina nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, ma le azioni liturgico-sacramentali, pur donando in sé stesse la grazia di Cristo, non sono riconoscibili e fruttuose in modo meccanico: vanno aiutate a dare frutto attraverso una paziente mistagogia di fede, che permetta ai credenti di imparare a scoprire che la loro forza e la loro assoluta necessità dipendono dal fatto che chi agisce in esse è Gesù Cristo, “velato” e allo stesso tempo “presente” con tutta la sua calda luce.

 

Gianandrea Di Donna

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Giubileo dei ministri straordinari della comunione

« Dall’unico altare alle molte case »

GIUBILEO
DEI MINISTRI STRAORDINARI DELLA COMUNIONE
IV ASSEMBLEA DIOCESANA
SABATO 3 MAGGIO 2025
ORE 9:30 – 16:00
OPERA DELLA PROVVIDENZA SANT’ANTONIO
SARMEOLA DI RUBANO

 

Sabato 3 maggio 2025, si celebrerà il GIUBILEO DEI MINISTRI STRAORDINARI DELLA COMUNIONE, che quest’anno coinciderà con la consueta assemblea diocesana. Sarà presente il VESCOVO CLAUDIO e continuerà ad accompagnare la sua Chiesa verso una consapevolezza sempre più matura delle novità proposte dal Sinodo diocesano.

Questo incontro permetterà di ottenere l’indulgenza plenaria, che il Santo Padre concede, per l’Anno santo 2025, a coloro che partecipano a riunioni di tipo spirituale. Le condizioni per ricevere la grazia dell’indulgenza saranno:
– l’ascolto devoto delle meditazioni;
– la celebrazione del sacramento della Penitenza nei giorni immediatamente precedenti o successivi al 3 maggio;
– la celebrazione dell’Eucaristia, ricevendo la Comunione;
– la preghiera per le intenzioni del Santo Padre (ad esempio Pater, Ave e Gloria o qualunque altra preghiera per il Papa approvata dalla Chiesa);
– la recita del Credo.

Il cuore del Giubileo dei Ministri straordinari della Comunione sarà la contemplazione di un segno tanto raccomandato dal Vescovo Claudio: la Comunione portata nelle case a partire dall’Eucaristia domenicale. Esso è stato affidato a Suor Elena Massimi F.M.A., presidente dell’Associazione Professori di Liturgia, come tema della riflessione che vorrà offrire.
Per riporre l’Ostia santa mentre realizzano questo atto di carità verso gli infermi, i Ministri straordinari della Comunione sono soliti servirsi di una piccola teca. Nel corso della Messa pomeridiana, essa verrà benedetta, quasi a voler chiedere al Signore la grazia di favorire con il suo sostegno sempre più la pratica della Comunione domenicale nelle case degli infermi.

 

PROGRAMMA

ore 09:00 Arrivi e accoglienza

ore 09:30 Rev. Monsignor ROBERTO RAVAZZOLO
Direttore dell’Opera della Provvidenza Sant’Antonio
Celebrazione dell’ORA TERZA

ore 10:00 Rev. GIANANDREA DI DONNA
Docente di Liturgia e Responsabile dell’Ufficio diocesano per la Liturgia
« La Comunione nelle case degli infermi. Una storia antica. »

ore 10:30 Rev. ELENA MASSIMI, F.M.A.
Presidente dell’Associazione Professori di Liturgia
« Dall’unico altare alle molte case. Considerazioni liturgico-pastorali. »

ore 11:45 S.E.R. Monsignor CLAUDIO CIPOLLA
Vescovo di Padova
« Il Ministero straordinario della Comunione: un modello per i ministeri battesimali? »

ore 12:15 Tempo per interventi e richieste

ore 12:45 PRANZO AL SACCO secondo le indicazioni che verranno date il giorno stesso
(ognuno procuri per sé cibo e bevanda)

ore 14:30 Rev. GIANANDREA DI DONNA
Responsabile dell’Ufficio per la Liturgia
CELEBRAZIONE EUCARISTICA

ore 16:00 Conclusione

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Celebrare il “mistero grande” dell’amore

 

 

CELEBRARE
IL “MISTERO GRANDE”
DELL’AMORE

 a cura dell’Ufficio per la Liturgia

 

Come Eva fu tratta da Adamo, nel primo giardino della creazione, il sacramento del Matrimonio fa sì che dal nuovo Adamo, Cristo crocifisso e risorto, dal fianco di quello Sposo, esca come oceano incontenibile la nuova Eva. La luce che avvolge gli sposi cristiani non sgorga da loro, ma è nascosta dentro il fianco squarciato del Signore Gesù Cristo. Se nel fulgore della bellezza degli sposi non cogliamo il rimando a colui che ne è l’autore, ci smarriamo. Vederli fedeli, uniti indissolubilmente e fecondi ci permette di riconoscere la nostra origine: noi siamo le nozze di Dio con la creazione. E per questo non si possono fare raccomandazioni di sapore mondano agli sposi, ma bisogna implorarli di una sola cosa: che non escano mai, nella loro esistenza, dal giardino del Crocifisso risuscitato, che restino in quel giardino, perché lì c’è la vita vera. Che non si lascino sedurre dai figli del mondo, ma rimangano ai piedi della croce. Lì è nato il loro Matrimonio, come un frutto dolce, splendente e buono.

 

Il rito delle nozze nella storia

Nell’epoca precostantiniana, il Matrimonio cristiano non prevedeva forme rituali particolari. I fedeli si servivano delle usanze del tempo, consci però del fatto che si sposavano “nel Signore”.

Già a partire dal IV secolo, le Nozze cristiane assumono una struttura più propriamente rituale. In quest’epoca, si registra il dato di grande rilievo di una prima relazione del Matrimonio con l’Eucaristia.

Dall’epoca carolingia in poi, il Matrimonio comincia a essere celebrato davanti alla chiesa, con grande carattere pubblico. Il Rituale Romanum del Concilio di Trento prevede il consenso di fronte al ministro sacro, la benedizione e la consegna dell’anello, e infine la possibilità di celebrare, al termine del rito del Matrimonio, una Missa pro sponsis.

Il Rituale Romano del 1975 e il vigente del 2004 (in maniera ancora più pronunciata) esprimono una radicale novità, riconoscendo e sottolineando la relazione intrinseca che c’è tra Matrimonio ed Eucaristia. Si comincia a parlare infatti de Il Sacramento del Matrimonio durante la Messa, per arrivare, nel 2004, a Il Rito del Matrimonio nella Celebrazione Eucaristica.

 

Matrimonio ed Eucaristia

L’alleanza tra Dio e il suo popolo, manifestatasi pienamente nell’amore di Cristo per la Chiesa, è stata frequentemente descritta attraverso la suggestiva immagine biblica e patristica della sponsalità. Questa relazione tra l’Agnello crocifisso-risorto e la Chiesa-sposa dice come è pensato “in Cristo” il rapporto tra uomo e donna.

Quando, nel 1975, e con maggiore consapevolezza nel 2004, si fa la scelta di celebrare le Nozze cristiane “nella Messa”, non è per offrire una semplice “cornice eucaristica”, né per concedere agli sposi la possibilità di “fare la Comunione dopo il loro Matrimonio” per chiedere a Dio le grazie necessarie. Nelle Nozze cristiane avviene la partecipazione sacramentale degli sposi alle nozze mistiche di Cristo con la Chiesa, al suo “dare la vita” per la “diletta sposa”. Solo per mezzo dell’inserzione nell’amore pasquale del Signore marito e moglie possono evitare di cadere nelle innumerevoli insidie della nostra fragilità. Gli sposi assumono la forma che Cristo ha assunto su di sé, “fino a dare la vita”, “tutta” la vita per amore, ed è la grazia sacramentale a permettere loro di avere la forza di ascoltare la chiamata evangelica a vivere l’uno per l’altro.

L’una caro, l’unità corporeo-sessuale che il sacramento del Matrimonio realizza, ha nell’unione Cristo-Chiesa il fondamento. La Chiesa, infatti, per mezzo del Vangelo e dei sacramenti (specie il sacramentum magnum dell’Iniziazione: Battesimo-Cresima-Eucaristia) diviene concorporea a Cristo.

 

Due modelli rituali

Sulla base della scelta conciliare di porre in stretta relazione Eucaristia e Matrimonio, arrivando a fare dell’Eucaristia stessa il modello ermeneutico del Matrimonio cristiano, gli adattamenti e le novità introdotte nel 2004 donano una maggiore ricchezza alla sua Liturgia. La serietà della riforma sta soprattutto nei due modelli celebrativi proposti: il Rito del Matrimonio nella celebrazione eucaristica e il Rito del Matrimonio nella celebrazione della Parola [di Dio], quest’ultimo secondo una duplice articolazione (tra battezzati e tra una parte cristiana e l’altra catecumena o non battezzata).

La scelta di un cambiamento così significativo affonda le radici in importanti motivazioni di ordine pastorale. C’è un numero sempre crescente di coppie di futuri sposi per le quali Cristo, la fede e la Chiesa non sono il centro della loro vita, ma si pongono solo “all’orizzonte”. In ragione di ciò, il rito del 2004 si propone di offrire una “flessibilità liturgica”, che risulti proporzionata alla reale situazione di fede dei nubendi.

Il “Rito del Matrimonio nella celebrazione eucaristica” dice una scelta di fede già compiuta. Come conseguenza pastorale e simbolico-rituale, sarà fondamentale far emergere nella celebrazione la “centralità” della Comunione eucaristica sotto le due Specie (Corpo e Sangue) da parte degli sposi quale “simbolo” dell’amore sponsale tra Cristo e la Chiesa, ricevuto in dono e assunto come impegno dell’amore che saranno invitati a vivere.

Il “Rito del Matrimonio nella celebrazione della Parola [di Dio]” è più adeguato a una coppia che si pone in via di rinnovata iniziazione cristiana. Attraverso il linguaggio dei segni, il rito orienta gli sposi verso quella più profonda e consapevole adesione a Cristo e alla Chiesa che ancora non sono in grado di vivere pienamente, facendo emergere la centralità della Parola di Dio come esperienza dell’“ascolto” capace di generare una rinnovata relazione con il Signore. Il vertice simbolico sarà pertanto, anziché la Comunione eucaristica, la consegna ritualizzata della Sacra Scrittura. Non come una specie di “regalo” spirituale, bensì come viatico per il cammino previsto dal loro nuovo stato di vita insieme e simbolo della loro ricerca-ascolto di Dio.

 

Una pastorale nella verità

La scelta del rito è un prezioso atto di libertà. La fatica pastorale che si impone è sollecitare la responsabilità dei nubendi rispetto al tipo di celebrazione, al fine che la intendano come espressione coerente della verità di come vivono. Vanno aiutati a non avere timore di mostrare a quale profondità si collochi la loro appartenenza ecclesiale e a non avere paura di apparire agli occhi di qualcuno come “poco credenti”. È importante che i pastori non temano di usare entrambi i modelli rituali e compito di chi guida gli incontri di preparazione è cercare di far affiorare un’autentica confessio vitæ et fidei dei fidanzati, che faccia da indicatore di direzione.

La presentazione del rito, frequentemente collocata al termine dei percorsi formativi, come coronamento e completamento dell’annuncio cristiano sul Matrimonio, necessita di un ricollocamento. Le diverse possibilità rituali sarebbe opportuno che diventassero la provocazione di avvio, con la quale stimolare la coppia a interrogarsi sul perché della volontà di “sposarsi in chiesa”.

 

Il Rito del Matrimonio nella celebrazione eucaristica

Il “Rito del Matrimonio nella celebrazione eucaristica” si articola in cinque parti.

 

1. Riti di introduzione

Vengono proposte due forme di accoglienza e ingresso degli sposi. Molto interessante è la prima (la più innovativa), nella quale traspare la teandricità, il carattere divino-umano dei “riti di accoglienza”.

I nubendi attendono con le rispettive famiglie e amici e, presso le porte della chiesa – cioè “fuori” dal luogo sacro, ma anche “nel mondo” –, ri-simbolizzano il loro incontro attraverso una condivisione dello stesso con i loro cari. Gli sposi “uniscono” non solo la propria vita, ma anche la vita, la storia, gli affetti delle rispettive famiglie, degli amici e conoscenti, permettendo che avvenga un “incontro” che, anche se non è certamente il primo cronologicamente parlando, è forse tra i più intensi dal punto di vista simbolico. Questa accoglienza, dal sapore prettamente umano, affettivo, “orizzontale”, si va a intersecare con l’accoglienza che Dio riserva agli sposi, manifestata e ritualizzata dalla presenza e dal saluto cordiale del ministro ordinato alle porte della chiesa. La coppia è accolta da Dio nella propria casa, perché egli faccia dei due una cosa sola e la loro esistenza e la loro storia sia raccolta in unità e trasfigurata dalla grazia. Questa “seconda” accoglienza – più interiore, spirituale, “verticale” – impegna la Chiesa stessa nella comunione invisibile con tutti i suoi figli. Il gesto di accogliere gli sposi e le rispettive famiglie e di salutarli presso le porte della chiesa potrebbe poi, ministerialmente, dilatarsi alla coppia, la quale a sua volta è invitata a salutare cordialmente, in parallelo con il saluto del celebrante, i convenuti, ricordando la storia del proprio amore e il perché della scelta di sposarsi nel Signore Gesù Cristo.

Segue l’ingresso degli sposi che, nello svolgersi della processione fino all’altare, accompagnati dai genitori e dai testimoni, mostrano la tensione-orientamento della loro esistenza a Cristo, il loro amore-venerazione a Cristo (l’altare è venerato) e la loro disposizione ad ascoltarlo (si collocano “ai piedi” dello stesso altare).

La seconda forma dei riti di accoglienza ricalca il cliché più classico dell’ingresso solenne della sposa e rischia di scivolare verso modelli più stereotipati. Quel padre che dà la figlia al marito potrebbe perfino suggerire nostalgie ‘patriarcali’ (e probabilmente tale era la realtà, nella sua origine storica), oltre a evocare suggestioni da film, da sfilata, da corte regale. L’ingresso insieme dei due sposi dice invece la loro personale scelta cristiana.

La Liturgia nuziale – omettendo l’atto penitenziale – esordisce con una memoria Baptismi, celebrata – “dove è possibile”, recita il n. 55 – presso il fonte battesimale, che viene raggiunto con una processione. Gli sposi cristiani, partecipi in forza del loro Battesimo del mistero pasquale di Cristo crocifisso e risorto, si dispongono a celebrare le Nozze, prima che come impegno, come risposta libera (e liberante) a un amore che, poiché proviene da Dio, li precede. Su questo insistono le tre monizioni iniziali, a scelta del presbitero, che introducono la memoria Baptismi.

Il rito di aspersione, che prende il posto dell’atto penitenziale, si compone di una monizione iniziale, una litania con acclamazione di ringraziamento per il dono sacramentale del Battesimo dinanzi all’acqua benedetta; infine l’aspersione, di chiara impostazione trinitaria e pasquale, dei nubendi e di tutta l’assemblea, mentre si esegue un’antifona adatta.

Al canto del Gloria, divenuto elemento essenziale della Messa per gli sposi, segue l’Orazione colletta,che chiude i riti di introduzione.

 

2. Liturgia della Parola

L’apprezzabilissimo Lezionario per il sacramento del Matrimonio dispone di un’ampia collezione di pericopi bibliche tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento. Se permane il criterio di adottare tutti i brani biblici che si riferiscono direttamente alle nozze nell’Antico e nel Nuovo Testamento, di notevole interesse è la scelta di testi che hanno la capacità di illuminare il “mistero grande” (cfr. Ef 5,32) non solo dell’amore umano ma anche della rivelazione cristiana.

La Liturgia della Parola, al termine della proclamazione del Vangelo, estende agli sposi – eccezione assoluta per i ministri non ordinati – la venerazione dell’Evangeliario, visibilizzazione sacramentale della presenza del Risorto che parla alla Chiesa, prevedendo anche per essi il bacio liturgico del libro. Questo “gesto” rituale si pone come atto di fede nella presenza reale di Cristo, cioè di ascolto della sua Parola, che illuminerà i momenti “cruciali” dell’esistenza degli sposi, e impegno a vivere e testimoniare la ministerialità sponsale in obbedienza al Vangelo. Il bacio allude anche a un amore a Cristo che precede, fonda e sostiene quello tra gli sposi.

 

3. Liturgia del Matrimonio

La Liturgia del Matrimonio esordisce con le interrogazioni prima del consenso. Si possono formulare secondo il modello classico dell’“interrogazione”, o secondo la nuova forma della “dichiarazione” contemporaneamente espressa dai nubendi.

Segue la manifestazione del consenso, accompagnato dall’antichissimo gesto della dexterarum junctio. Esso si rafforza con l’indicazione di rivolgersi l’uno verso l’altro, passando dalla posizione rivolta all’altare, che è Cristo, allo sguardo verso il coniuge.

Il consenso prevede tre forme.

La prima – oltre alla sostituzione del verbo “prendere” con il più esistenzialmente ricco “accogliere” – raccorda meglio le espressioni del libero e maturo impegno umano (“prometto di esserti fedele sempre…”) con l’azione gratuita di Dio, tramite la felice espressione “con la grazia di Cristo”, chiara allusione al primato della grazia sul consenso sacramentale.

Una seconda forma prevede una reciproca interrogazione tra sposo e sposa, di vago sapore biblico, che si chiude con un consenso “a una voce”, espressione lirica del mistero nuziale dell’una caro. L’espressione “con la grazia di Dio”, anche nella seconda forma, interagisce teandricamente con il libero impegno umano.

È prevista ancora una terza forma, tutta interrogativa, utile nei casi in cui sia difficile o impossibile l’esposizione di un testo prolungato, per balbuzie, analfabetismo, cecità…

Chiude questa sezione l’accoglienza del consenso, con il “ricuperato” gesto da parte del presbitero di stendere la mano sulle mani unite degli sposi.

La benedizione e consegna degli anelli vede il presbitero consegnare gli anelli agli sposi.

È data la possibilità di arricchire i riti esplicativi, dando alla Liturgia maggior forza simbolica ed espressività, con l’incoronazione degli sposi. Essi sono il nuovo Adamo e la nuova Eva, che hanno raggiunto il “coronamento-completamento” dell’esistenza l’uno nell’altro. L’uno è divenuto “causa” e “ragione” di salvezza (cioè corona di eternità) dell’altro, come fosse avvenuta una dedicazione dell’uno all’altro.

È possibile collocare a questo punto la solenne benedizione nuziale. L’anticipazione della benedizione viene motivata da una riscoperta pneumatologia del rito, situando entro la “Liturgia del Matrimonio” un’“epiclesi nuziale”.

È possibile accompagnare la solenne benedizione con il rito dell’imposizione del velo sugli sposi ovelazione. Esso vuole esprimere la “comunione di vita che lo Spirito, avvolgendoli con la sua ombra, dona loro di vivere”. Questo gesto, carico di suggestione, esprime una dilatazione simbolico-rituale rispetto all’ancor troppo frequente uso dell’“asciutta” formula di consenso. Il velo è memoria del nimbo, della nube di cui Dio è avvolto e segno dell’epiclesi dello Spirito Santo-Amore sugli “amanti”.

La consueta preghiera dei fedeli – presentata secondo il modello esemplare di poche e brevi invocazioni di stampo litanico – si prolunga in una significativa invocazione (litania) dei santi, intercessione di coloro che vissero santamente-fedelmente nel Matrimonio, segno di comunione ecclesiale, di protezione celeste, nonché anticipazione della comunione escatologica cui tende e si proietta la Liturgia cristiana.

Quando è prescritto, si fa la Professione di fede.

 

4. Liturgia eucaristica

Si svolge come di consueto ed è integrata dall’invito agli sposi a portare all’altare i santi doni del pane e del vino, segno della strettissima relazione tra Matrimonio ed Eucaristia.

L’esortazione, all’Offertorio, a raccogliere le offerte per “particolari situazioni di povertà” è l’ennesimo richiamo alla più autentica vocazione dell’offertorium romano, sintesi mirabile tra la caritas e il sacrificium di Cristo – sacramentalmente presente nei santi Doni consacrati – e la caritas e il sacrificium fidelium, esistenzialmente presente nell’offerta di sé e nelle oblate (in senso ampio) per i fratelli più poveri. Le due “offerte” si completano e si fondano reciprocamente. Sarebbe perciò auspicabile che gli sposi proponessero una colletta per i poveri, da presentare all’offertorio delle Nozze.

Il rito del Matrimonio ha il proprio vertice simbolico-teologico nella Comunione degli sposi sotto le due Specie. Con questo gesto essi assumono-assimilano il Corpo e il Sangue di Cristo nell’atto supremo di consegnarsi al mondo per amore. Pertanto, ricevendo come nutrimento l’amore divino di Cristo, ottengono la grazia di diventare essi pure capaci di amore fino al dono supremo di sé.

 

5. Riti di conclusione

Oltre alla benedizione, è questo il momento delle disposizioni concordatarie, lette sempre pubblicamente, e della sottoscrizione dell’atto di Matrimonio, da potersi fare pubblicamente o in sacrestia (mai sull’altare!).

Un congedo, un po’ verboso a dire il vero, conclude la celebrazione, con l’invio “missionario” e il richiamo alla ministerialità sponsale.

Si suggerisce infine la possibilità di donare agli sposi il libro della Sacra Scrittura.

 

Il Rito del Matrimonio nella celebrazione della Parola [di Dio].

La seconda forma si articola in quattro parti.

1. Riti di introduzione: analoghi al primo schema, prevedono una ricca memoria del Battesimo. Chiude un’orazione colletta.

2. Liturgia della Parola: con gli stessi principi del primo schema. Si inaugura con una monizione introduttiva e si chiude con il bacio di venerazione dell’Evangeliario da parte degli sposi.

3. Liturgia del Matrimonio: prevede uno schema celebrativo analogo al primo, anche se più semplice. Si compone di alcune parti per le quali valgono i principi interpretativi già sopra menzionati:

  1. Interrogazioni
  2. Consenso
  3. Benedizione degli anelli
  4. Benedizione nuziale
  5. Preghiera dei fedeli e preghiera del Signore
  6. Interessante l’introduzione della consegna ritualizzata della Bibbia. La celebrazione del Matrimonio ha lì il suo culmine celebrativo rituale. La Parola di Dio diventa il dono più grande ricevuto dagli sposi, in vista dell’impegno a proseguire l’itinerario di fede.

4. Riti di conclusione, che si articolano in:

  1. Benedizione
  2. Disposizioni concordatarie e sottoscrizione dell’atto di Matrimonio

 

L’esercizio della ministerialità

Un carattere che è fondamentale riconoscere nel rito del Matrimonio è la diffusa ministerialità che richiede.

Gli sposi, tramite il patto coniugale che liberamente si scambiano, sono evidentemente i soggetti primi.

Il presbitero (talora il Vescovo o il diacono), esercitando un’azione deprecativa (epicletica) sugli sposi, si pone come il soggetto attivo di una ministerialità deputata a celebrare la forza trasformante dell’agire sacramentale di Dio.

I lettori, ministri dell’annuncio di salvezza dello Sposo divino alla Chiesa, sua diletta Sposa, esercitano un servizio di tipo profetico, manifestando l’epifania della presenza di Cristo nella sua Parola. Un ministero, dunque, che non può essere relegato all’improvvisazione dell’ultimo momento, né ai semplici criteri “di amicizia”.

I cantori, il salmista, i musicisti. È necessario pensare al canto nella Liturgia nuziale come a un “linguaggio della fede celebrata”, appartenente alla natura stessa del rito cristiano, rifuggendo dalla logica della mera solennizzazione e dello sfarzo. I brani da eseguire vanno concordati tra presbitero, sposi, cantori e musicisti, perché siano in profonda unità con il rito nuziale, espressione coerente e consapevole del mistero celebrato.

Di grande problematicità pastorale è la creazione di un repertorio di canti appropriati al rito delle Nozze. Andrebbe assolutamente rivista la prassi di usare canti tratti dalle grandi arie di noti compositori, tradizionalmente approdati al “Matrimonio in chiesa”. L’aspetto problematico di questa consuetudine non riguarda tanto il “genere musicale” dei brani, né il fatto che sia un cantore a eseguirli, quanto piuttosto la modalità con cui ciò avviene. La Liturgia mal sopporta solisti in atteggiamento da palcoscenico. Vuole avvalersi di cantori che, in atteggiamento orante, elevino potentemente gli animi a Dio ed esprimano con il canto la supplica, l’adorazione, la profondità del mistero. L’ambito rituale nel quale intervenire, concordato in anticipo, il loro posto nell’aula liturgica, l’uso del microfono, l’abbigliamento saranno pertanto orientati a tale scopo. È quasi superfluo ricordare come la scelta dei brani debba attingere solo al repertorio strettamente cristiano e sacro. Il canto “romantico” o poetico dell’amore umano non trova collocazione in un’autentica Liturgia cristiana.

Gli accoliti e i ministranti assumono l’ufficio di ministri dell’altare, il cui compito è di affiancare sposi e presbitero per tutte le mansioni, anche pratiche, riguardanti la proprietà dell’allestimento – scevro da ogni barocchismo e cerimoniosità –, la ritualità diffusa (l’incenso, i ceri, la preparazione dell’altare, i libri liturgici…), l’uso dei segni e delle suppellettili fondamentali (l’Evangeliario, i vasi sacri, le corone, il velo, gli anelli, i fiori…), elementi necessari all’espressività simbolico-rituale, pena l’appiattimento sul solo codice verbale. La funzione dei ministranti potrebbe essere anche utile per recuperare nella celebrazione delle Nozze l’uso dello spazio: si pensi alla statio fuori dalla chiesa; alle processioni al fonte battesimale, all’ambone e durante la presentazione dei doni; alla collocazione degli sposi nell’aula liturgica durante la benedizione e le altre preghiere; alla presenza distribuita nello spazio circostante dei ministri ordinati, dei testimoni, dei parenti, della schola cantorum, di eventuali musicisti; alla collocazione non “cerimoniale” di banchi, ceste di fiori, sedili, microfoni, drappi, dettagli certamente marginali ma che, per il loro aspetto funzionale o decorativo, se usati male possono trasformarsi in goffi apparati o ostacoli visivi nell’aula.

 

Alcuni suggerimenti pratici

 

La coronazione e la velazione

I due riti esplicativi facoltativi – la coronazione e la velazione – sono contigui. Dopo il consenso, le persone che ne sono state incaricate portano processionalmente le fedi nuziali, le corone e il velo. Si pongono alla destra del sacerdote, che benedice gli anelli e li dà agli sposi per lo scambio, dopo il quale essi si inginocchiano. Il celebrante, tenendo le corone sul loro capo, pronuncia la formula come da Rito del Matrimonio n. 78, quindi le impone su entrambi.

È possibile che siano i fioristi stessi a realizzarle, con una struttura di fil di ferro molto sottile, rivestito di carta e di piccole foglie verdi o, nel caso della sposa, di roselline e altri fiori adatti (non il velo da sposa, che risulta disordinato). In alternativa, si può scegliere la tipica corona orientale, acquistabile online o in alcuni negozi di articoli religiosi. Ci sono anche siti dove la si può trovare in forma di fascetta: un piccolo circulus, molto elegante, di argento dorato.

Il velo, fatto di stoffa leggera (tendenzialmente il tulle), dev’essere grande, in modo da coprire sposo, sposa e sacerdote: almeno quattro metri per due. Può essere anche – come esemplarmente si fa in Sicilia – abbellito e ricamato. Dal punto di vista pratico, quando viene imposto al termine della solenne benedizione degli sposi, lo si fissa all’acconciatura di lei, o con un pettine già predisposto sul lato corto, qualora voglia lo strascico, oppure sul lato lungo, se preferisce una foggia più sobria.

Sarebbe bene che fosse una donna, per la grazia necessaria in questo frangente, a porgere ai testimoni e ai genitori il velo, che viene aperto e steso mentre quattro persone lo reggono agli angoli. Gli sposi sono in ginocchio e glielo si fa scorrere sopra il capo, in modo che si formi così la huppah. Il sacerdote entra sotto il velo e lì canta – o almeno recita – la solenne preghiera di benedizione. Poi lo sposo si alza e, se lo desidera, si toglie la corona. La sposa resta in ginocchio e, liberato il capo, si fa mettere da un’amica o una testimone il velo, fissandolo sulla pettinatura acconciata, quindi il sacerdote ci rimette sopra la corona. Questo è il momento in cui, mentre la schola fa un canto di esultanza, gli sposi possono salutare i genitori e i testimoni, invece che approfittare dello scambio di pace, che dovrebbe mantenersi sobrio e composto, senza gente che gira per la chiesa raggiungendo parenti e amici.

Alla litania d’intercessione con le invocazioni dei santi segue, se è domenica, il Credo, e infine l’offertorio, con il pane e il vino portati dagli sposi all’altare.

 

I fiori

Non ci sono norme precise da rispettare per quanto riguarda colori e tipologie. Ciò che va evitato è che il fiorista addobbi la chiesa puntando a creare un’ambientazione, con candele sui gradini, lampade, torce, lucerne, vasi, cascate di fiori, petali per terra… Gli organizzatori dei Matrimoni chiedono spesso agli sposi di acquistare il pacchetto completo dei servizi, per cui i fiori per la chiesa vengono poi trasferiti al banchetto nuziale, dimenticando che l’arredo di un luogo sacro ha una vocazione diversa rispetto all’estetica di un centrotavola da banchetto nuziale.

I fiori, nella Liturgia, hanno lo scopo di dare lode a Dio e di ornare le due eminenzialità: altare e ambone (anche il fonte battesimale, se ci si reca lì per fare la memoria del Battesimo). I fioristi non devono esagerare nel riempire il prebiterio di ammassi di piante, che entrano nella logica dell’ambientazione. È preferibile piuttosto un segno floreale lungo i banchi della chiesa.

 

Il sussidio liturgico

Non vanno scaricati da internet. L’ideale sarebbe che ogni prete avesse un file word con l’ossatura fondamentale del rito, e le parti facoltative segnate in rosso, da girare alla coppia.

Il sussidio liturgico (libretto) ha bisogno che si faccia preliminarmente la scelta delle letture; per questo va consegnato agli sposi, all’inizio del corso di preparazione al Matrimonio, il pdf scaricabile della CEI con il Lezionario. Così, nei mesi che precedono la celebrazione, possono leggersi le poco più che ottanta pericopi tra Antico e Nuovo Testamento per scegliere le più adatte, e questo varrebbe per loro da importante itinerario spirituale. Bisogna solo stare attenti a individuare letture conformi ai tempi dell’anno liturgico. Le coppie vanno informate che in Avvento e Quaresima i Matrimoni è fatto divieto di celebrare solennemente le Nozze, in ragione del clima penitenziale, e che, qualora si decidesse per un sabato del Tempo di Pasqua, dopo le 16 è necessario usare letture ed eucologia delle domeniche di Pasqua. Invece, se la celebrazione avviene prima delle 16, si possono scegliere nel Lezionario del Matrimonio tra quelle indicate per il Tempo di Pasqua.

Si eviti di fare libretti a metà, dove manca la parte eucaristica. O c’è tutto, o meglio limitarsi a un foglio con i canti. In copertina sarebbe importante che la dicitura fosse: “Celebrazione eucaristica con il rito del Matrimonio di…” o “Celebrazione della Parola di Dio con il rito del Matrimonio di…”, non “Luca e Francesca sposi” o “Luca e Francesca 2025”, scelte emotivo-affettive improprie. Non stiamo celebrando loro, ma l’Eucaristia e la Parola di Dio; e nel corso della Pasqua del Signore avviene il Matrimonio di Luca e Francesca.

La fattura del libretto sia semplice: basta una spillatura, senza costosi nastri. Le immagini dovrebbero uscire dagli stereotipi, evitando tramonti, fedi incrociate e colombine che si baciano. Piuttosto, si cerchi una raffigurazione di Cristo e Maria, o una fotografia della chiesa parrocchiale, metafora della Chiesa sposa di Cristo e segno del luogo che accoglie la coppia.

 

I canti rituali e la musica

È sempre difficile trovare un’assemblea che canti nel corso dei Matrimoni, per cui un coro (anche di poche persone) risulta molto utile. Si abbia cura che non manchino almeno i canti del Gloria, del Salmo responsoriale, dell’Alleluja, del Santo e dell’Agnello di Dio, in dialogo con l’assemblea per quanto è possibile. Il resto può essere affidato al coro, purché si vietino i brani che non hanno nulla a che fare con la fede.

Si tenga in debito conto l’Appendice musicale che sta nel Rito del Matrimonio 2004 (pp. 131-138), in cui sono presenti i canti rituali del celebrante in dialogo con il coro e l’assemblea. Specie la memoria del Battesimo e la bella benedizione degli sposi (accompagnata possibilmente dalla velazione) in dialogo con la schola e l’assemblea.

 

Le fotografie e i video

Il Diritto canonico prescrive che «nel luogo sacro sia consentito solo quanto serve all’esercizio e alla promozione del culto, della pietà, della religione» (CJC can. 1210). In questa prospettiva, è necessario che l’intervento dei fotografi nel contesto della Liturgia venga concordato con il rettore della chiesa in cui si svolge la celebrazione, che ne è il responsabile (cfr. IGMR 73).

È bene definire in precedenza (non immediatamente prima delle celebrazioni) le modalità esecutive del servizio fotografico, magari identificando una o più postazioni fisse (secondo la configurazione architettonica delle singole chiese) dalle quali fare le riprese. Gli spostamenti necessari devono essere sobri e discreti, evitando attraversamenti del presbiterio.

La Liturgia della Parola e la Preghiera eucaristica impongono un assoluto rispetto e sono momenti in cui non vanno fatti scatti o riprese.

L’uso del flash andrebbe evitato, o almeno ridotto al minimo indispensabile, e se c’è bisogno di accendere o spegnere lampade di elevata intensità, ciò non va fatto in maniera brusca. Si provveda piuttosto a un’illuminazione supplementare dell’ambiente fin dall’inizio della celebrazione.

Si cerchi di assicurare discrezione nei gesti, silenziosità nei movimenti, decoro nell’abbigliamento, garantendo un atteggiamento sempre consono al contesto.

Al termine delle celebrazioni è consentita una maggiore libertà, salvo sempre il rispetto dovuto al luogo sacro.

 

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Per celebrare il silenzio

 

All’inizio della Liturgia eucaristica, dopo la presentazione delle offerte, il presbitero dice: Orate fratresPregate, fratelli e sorelle, perché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente. A questa antica e veneranda formula offertoriale di invito alla preghiera, furono aggiunte (nel Messale Romano edizione II del 1983) altre formule di pari intensità, tra le quali: Pregate, fratelli e sorelle, perché il sacrificio della Chiesa, in questa sosta che la rinfranca nel suo cammino verso la patria, sia gradito a Dio Padre onnipotente.

Si comprende in modo chiaro come tale sosta debba essere intesa come una disposizione interiore a rinfrancare le forze, attingendo energia da quanto di più essenziale è dato alla Chiesa: la persona divina di Gesù Cristo. L’incontro, la sosta con lui, non è un astratto e vago ricordo di quanto egli ci avrebbe lasciato come eredità spirituale. Si tratta piuttosto di un tempo santo nel quale riconoscere un inatteso rovesciamento delle parti: non noi, non la Chiesa con le sue forze, ma Cristo agisce nella Chiesa, la regge, la conduce, la rinfranca e le dà vita. Mentre celebriamo i divini Misteri – e in modo particolarissimo l’Eucaristia – siamo chiamati a fare esperienza di come in essi il Signore agisca in prima persona. Potremmo dire che Liturgia cristiana è proprio una sosta che rinfranca, in quanto riconsegna a Cristo la guida della Chiesa e il primato della sua grazia nella vita pastorale.

Sarà spiritualmente fruttuoso riappropriarci di questa feconda e rinfrancante sosta che è la Liturgia(specie l’Eucaristia!), celebrata nel giorno del Signore risorto (e quotidianamente) nelle nostre parrocchie. Riappropriarci del suo essere sosta che le rinfranca, le corrobora, le nutre, le riaggancia all’essenziale, le rianima evangelicamente. Questo deve avvenire dando maggior fiducia alla potenza del rito in sé e non cadendo nell’ingenuità della didascalia didatticheggiante, tentazione perenne di una mal interpretata riforma liturgica.

A tal proposito, uno degli elementi rituali più importanti della celebrazione liturgica è il silenzio, spazio dell’agire divino, cui il Messale Romano dà più volte la qualifica di sacro. Esso viene definito come “parte della celebrazione”, capace di favorire l’attiva partecipazione dei fedeli (cfr. Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 30). Il silenzio, durante la Liturgia, è densissima esperienza antropologica dell’uomo che sosta, sospende le altre “attività”, per riconoscere, quasi estatico, l’invisibile presenza del Crocifisso risuscitato. Nel silenzio santo, verso il quale tutti i riti – se autenticamente celebrati – si dirigono, la Chiesa non tanto ascolta, ma “vede” il suo Signore.

Il silenzio santo, apparentemente inattivo, sospende ogni mediazione, ogni ministero, ogni parola e canto, affidando a tutti – fedeli laici e pastori indistintamente – la potestà di stare davanti a Dio faccia a faccia, tutti rivolti verso di lui.

In quel silenzioso spazio divino, come Chiesa del Signore risorto, sarà possibile riconoscere nella fede che il pane e il vino sono stati trasformati (transustanziati) per opera dello Spirito Santo nel Corpo e nel Sangue di Cristo, perché fosse trasformata (potremmo osare l’espressione transustanziata!) la Chiesa stessa in un solo mistico Corpo. Non è poca cosa, per la vita delle nostre parrocchie, darsi uno spazio apparentemente così poco dinamico, poco coinvolgente, poco emotivo, quale il silenzio, per riconoscere, con gli occhi della fede, che nella Liturgia la Chiesa riceve – per grazia – la luce del Vangelo, la gratuità della salvezza, la gioia della vita fraterna, la forza di amare, la speranza che non conosce tramonto…

La nostre parrocchie hanno l’opportunità di dare fiducia alla fede celebrata dal Popolo santo di Dio, lasciando che eserciti la sua azione sacerdotale, presentando a Dio l’offerta della sua vita, unita al Sacrificio di Cristo, credendo che questo stesso Popolo santo di Dio sappia – celebrando il silenzio – riconoscerlo presente nei Santi misteri, sappia adorarlo, sappia seguirlo sulla via del Vangelo, sappia obbedirgli, vivendo la vita fraterna e la carità umile e operosa.

I momenti più idonei per valorizzare il silenzio (indicati dai libri liturgici stessi), durante la celebrazione eucaristica, sono: durante l’atto penitenziale; dopo l’invito alla preghiera (“Preghiamo”) nelle orazioni;dopo le letture bibliche; dopo l’omelia; dopo la santa Comunione (specie dopo il Canto di comunione,senza dover concludere frettolosamente la celebrazione). È altresì possibile dare spazio al silenzio (al posto del ritornello) dopo ogni intenzione della Preghiera dei fedeli; il silenzio può essere valorizzato all’offertorio, pronunciando le preghiere di offerta (Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo…) sottovoce, come indica lo stesso Messale Romano. Densissimo il silenzio durante l’elevazione dell’Ostia e del Calice consacrati (nella Preghiera eucaristica), tenendo conto che non è mai ricordato a sufficienza il divieto assoluto di ogni sottofondo musicale: il grande e sacro silenzio dell’assemblea durante la Preghiera eucaristica è una delle forme più alte della sua partecipazione attiva. Il silenzio potrebbe essere molto proficuo spiritualmente durante la celebrazione delle Esequie cristiane; del Matrimonio(queste celebrazioni sono spesso “inquinate” da frastuono, applausi, elementi inadeguati al rito cristiano); durante la celebrazione della Liturgia delle Ore e durante l’Adorazione eucaristica. Può essere spiritualmente fruttuoso il recupero del silenzio in Quaresima: con l’uso della sola voce umana – senza l’accompagnamento dell’organo e degli altri strumenti musicali –, la possibile sostituzione di alcuni canti processionali con il silenzio (introito, offertorio, canto di Comunione)… Forme rituali molteplici aiutano non a “fare” silenzio ma a celebrare il silenzio.

Gianandrea Di Donna

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Matrimonio, una carne sola

Nei due decenni trascorsi da quando, nel 2004, è stato pubblicato il “nuovo” Rito del Matrimonio, la società ha vissuto cambiamenti inimmaginabili. La percezione dell’identità di uomo e donna è stata stravolta, eppure la novità che la Liturgia offriva alla Chiesa rimane vivida, con una ricchezza di segni che meritano di essere compresi e valorizzati come importanti risorse pastorali. Con questo obiettivo, l’Ufficio per la Liturgia e l’Ufficio di Pastorale della famiglia propongono il corso “Come la parrocchia celebra il Matrimonio”. Due incontri, mercoledì 19 e 26 marzo, alle 20.45, contemporaneamente nelle Chiese Parrocchiali di Solesino, Stra, Asiago e Sacro Cuore in Padova (e giovedì 20 e 27 marzo a Quero). Il corso è pensato tanto per i presbiteri e i diaconi, quanto per i laici che li affiancano nelle celebrazioni (in particolare i membri dei gruppi liturgici), ma anche per chi voglia approfondire dal punto di vista teologico il mistero di un Dio che si rivela come Amore increato.

La prima data sarà a cura dell’Ufficio Famiglia, che nei mesi scorsi ha raccolto presso varie parrocchie della Diocesi alcune domande su temi da ripensare per un aggiornamento. Nel secondo, l’Ufficio per la Liturgia si concentrerà sul rituale e la teologia del sacramento cristiano dell’amore coniugale, che a volte corre il rischio di essere inteso solo come il “momento magico” dove a farla da padroni sono gli affetti e le relazioni personali dei due sposi, i loro gusti, le loro musiche del cuore, le loro scelte estetiche. Una rinnovata e più accurata “introduzione ai misteri” permetterà di entrare nello spirito delle preghiere e delle molteplici azioni simboliche che compongono il rito del Matrimonio, scoprendone la stupenda ricchezza spirituale. Mentre crescono separazioni e divorzi, la Chiesa può opporre alla deriva lo sfolgorante annuncio di un Dio che è luce, bellezza, verità, carità, e continuare a offrire la cura amorosa dei suoi sacramenti.

Le riforme del 1975 e del 2004 mostrano la piena consapevolezza del legame tra le Nozze cristiane e l’Eucaristia, rendendo manifesto come sia solo la partecipazione alla Pasqua del Signore a permetterci di avere la capacità di un dono senza riserve, tanto nel campo dell’etica quanto in quello dei sentimenti. L’unione indissolubile e feconda, fino a diventare “una carne sola”, di un uomo e una donna non è un sogno romantico da costruire con le nostre forze; è un obiettivo di vita talmente alto da essere equiparabile alla vocazione a seguire Gesù che chiede di caricarsi del giogo soave della croce. La grazia effusa nella celebrazione del Matrimonio permette a una coppia di diventare simbolo, con la scelta di una vita insieme senza fratture, dell’alleanza eterna che Dio ha stabilito con l’umanità. Non va mai dimenticata questa prospettiva “dall’alto”.

La novità pastorale del 2004 sta soprattutto nei due modelli celebrativi proposti: il Rito del Matrimonio nella celebrazione eucaristica e il Rito del Matrimonio nella celebrazione della Parola di Dio, quest’ultimo secondo una duplice articolazione (tra battezzati e tra una parte cristiana e l’altra catecumena o non battezzata). La “flessibilità liturgica” è la modalità con cui la Chiesa prova ad andare incontro alla reale situazione di fede dei nubendi, senza costringerli a forzature. Se in certi casi l’Eucaristia risulta una proposta eccessiva, il Matrimonio “nella celebrazione della Parola di Dio” è l’occasione perché una coppia riprenda confidenza con l’annuncio della salvezza, primo passo sulla via di una rinnovata iniziazione cristiana.

Una prospettiva attualissima da considerare è la diffusa ministerialità che il sacramento del Matrimonio richiede. La parrocchia dovrebbe imparare a stringersi con calore intorno ai fidanzati, mettendo a disposizione i propri lettori, cantori, musicisti, accoliti e ministranti, le persone che si prendono cura dei fiori e dell’arredo, oltre che i catechisti e le coppie già sposate per l’accompagnamento. Ciò agirebbe in senso evangelizzatore sugli sposi, che farebbero un’esperienza davvero significativa di fraternità, e, al contempo, valorizzerebbe i carismi di chi presta il proprio servizio alla Chiesa. Ed è in questo senso che il corso desidera offrire gli spunti più concreti, secondo gli auspici del recente Sinodo diocesano, che ha individuato nella valorizzazione della ministerialità uno degli obiettivi fondamentali del futuro che ci attende.

Gianandrea Di Donna

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Dare fiducia al seme originario

«Riconoscenti per essere divenuti figli nel Figlio, facciamo ora memoria del Battesimo, dal quale, come da seme fecondo, nasce e prende vigore l’impegno di vivere fedeli nell’amore». Con il rito della memoria del Battesimo, gli sposi cristiani, partecipi del mistero pasquale di Cristo crocifisso e risorto, orientano le loro Nozze prima che come impegno, come risposta libera (e liberante) all’amore di Dio che li precede. Per questo la liturgia nuziale inizia con la memoria Baptismi, celebrata possibilmente presso il fonte battesimale, da raggiungersi con una processione.

Il rito, che prende il posto dell’atto penitenziale, si compone di una monizione iniziale, una invocazionein canto con acclamazione di ringraziamento per il dono del Battesimo dinanzi all’acqua benedetta; quindi l’aspersione dei nubendi e dell’assemblea, mentre si canta un’antifona adatta. Tutto è preceduto dall’atto rituale con cui sposi e assemblea raggiungono processionalmente il fonte battesimale, ricuperando un’autentica teologia dello spazio: le nostre assemblee, spesso “ingessate” (causa non ultima i banchi, di severa tradizione protestante, per assemblee “sedute” e “composte”, in ascolto del sermone) sono chiamate a ritrovare una tradizione cattolica (arcaica) che vuole assemblee “in piedi”, dinamiche, reattive ed esuberanti. Non “stare-vedere”, ma “andare-udire”! La scelta è quella di “tornare” al fonte, ianua Ecclesiœ (“porta di accesso” nella Chiesa), per dare fiducia a quel seme originario, il Battesimo, e ai suoi frutti di amore.

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Compagni di strada della famiglia nascente

Quando, nel 2004, i vescovi italiani hanno sentito il bisogno di offrire alle comunità cristiane il nuovo Rito del Matrimonio, le diocesi del Triveneto hanno accolto questo dono come un invito a ripensare anche l’accompagnamento pastorale delle coppie che domandano di unirsi nel sacramento. Quattro i protagonisti chiamati a entrare in gioco: fidanzati e accompagnatori, fisicamente impegnati a incontrarsi; Gesù maestro, presenza viva e discreta in ogni storia d’Amore; la comunità cristiana, riconoscente per il segno rinnovato di un Amore che continua a chiamare al dono di sé. Le storie dei fidanzati sono diventate spunto per riflessioni sui pilastri dell’essere in relazione, gli accompagnatori hanno iniziato a condividere le proprie esperienze di vita e di fede affrancandosi dalla rassicurante dimensione di ‘esperti’, la presenza di Gesù è stata condivisa nell’accostarsi insieme alla Parola e ai segni del celebrare… E la comunità cristiana? Oggi, a distanza di vent’anni, come si celebrano le Nozze cristiane nelle nostre comunità? Una possibile risposta è: sempre meno e con sempre meno consapevolezza.

Viene spontaneo invocare il calo demografico e l’aumento delle convivenze, la sensazione di crescente incertezza del futuro e la difficoltà di assumere un progetto per la vita che sembra serpeggiare tra le giovani generazioni. Emerge però anche la sensazione che la chiesa si accontenti di essere scenario passivo per celebrazioni sempre più abitate da professionisti del “giorno più bello della vita”.

Da questo dato muove la proposta formativa che stiamo portando in cinque zone della nostra diocesi, perché le nostre comunità si sentano chiamate a dare corpo e anima al celebrare le Nozze, anche quando a chiederlo sono coppie “sconosciute”. Se restiamo timidamente sulla soglia, invece di offrirci come compagni di strada alla famiglia nascente, rischiamo di lasciare un vuoto che resterà tale o sarà al più colmato da chi offre promesse di superficie, che non parlano al cuore umano come la Promessa attorno alla quale la comunità cristiana si raccoglie.

Chiara Barra e Federico Piovan

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