Archivio Tag: Speciale Liturgia

L’instancabile suo Amore

 

«Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). In queste parole, pronunciate da Gesù alla vigilia della sua morte, riecheggia la grande promessa custodita dalla compagnia umana e sacramentale della Chiesa: l’amicizia di Cristo, il legame eterno che Cristo stesso desidera stabilire con noi.

Il cammino che accompagna a vivere il compito del ministero straordinario della Comunione prende, nel nome e nel metodo, la forma del servizio, per essere occasione per contemplare la presenza vivente di Gesù, il suo amore instancabile che non teme di farsi piccolo in una particola e di affidarsi alle nostre misere mani per raggiungere i fratelli infermi e tutti coloro che, fragili nel corpo, attendono quel bacio eterno che trascende e nel contempo abbraccia la nostra natura umana.

Da pochi mesi ho potuto muovere i primi passi nella via di questo ministero e, con stupore e gratitudine, riconosco come tale servizio stia divenendo opportunità privilegiata non solo per donare la propria persona a Cristo (affinché tutto di noi possa essere conformato alla sua presenza vivente), ma per stare con lui ammirando il suo dono gratuito al mondo, l’amore con cui lui desidera raggiungere ogni creatura. Si può comprendere allora come la vera gioia e l’autentica pace risiedano in questa esperienza: nell’essere resi parte dell’amore con cui Gesù ama il mondo.

La prima domenica in cui ho portato la Comunione a una sorella inferma, compivo a piedi il breve tragitto dalla Chiesa alla sua abitazione pensando al dono ineffabile della Comunione stessa: a come, attraverso la Particola, il cuore di Gesù si offre per compenetrare il nostro stesso cuore; in fondo è questo l’unico Amore che ci salva, rendendo possibile il nostro cammino attraverso le vie, alle volte impervie e dolorose, della nostra esistenza. Poi, quando ho incontrato la sorella a me donata, e ho sollevato per la prima volta la Particola, lei ha sussultato e i suoi occhi sono diventati lucidi, commossi: lei era cosciente del dono di Cristo e attendeva tutto da questo. A quel punto, ho avuto io stessa un sobbalzo e mi sono chiesta: io, oggi, per cosa mi commuovo? Mi rendo conto che Cristo si fa carne per entrare nella mia carne, per essere un tutt’uno con me oltre ogni possibilità umana? Mi rendo conto che mi viene dato tutto perché lui stesso si dona al mio cuore, alla mia persona, perché io possa essere salvata dalla sua presenza in me? In quel momento ho intuito questo: non portiamo la Comunione per fare qualcosa per Gesù (certo, per gratitudine cerchiamo di dare gratuitamente ciò che gratuitamente abbiamo ricevuto); portiamo la Comunione per contemplare il mistero di Cristo che incontra gli uomini, per contemplarlo nel suo essere per noi, per stare ai piedi della sua croce, il vertice del suo dono d’amore, con lui. Si potrebbe forse affermare che servire non è fare, ma lasciare a Dio la possibilità di rendersi più familiare a noi nell’amicizia, e incontrare gli altri uomini riconoscendoli come oggetto di questo stesso Amore.

Si può riconoscere, poi, che questo rapporto privilegiato con la Comunione può aiutare il nostro sguardo a farsi più vero anche nelle minute pieghe delle nostre giornate. Più precisamente, può aiutare la preghiera e il lavoro a cambiare, a crescere, a farsi più essenziale. Alle volte, infatti, mentre lavoro, mi viene in mente questo ministero: il privilegio di essere parte dell’amore con cui Gesù si dona a ogni uomo, uno per uno, così come siamo, senza pretendere nulla in cambio, se non di essere accolto in noi. E così, nei nostri incontri quotidiani – in ogni ambito, anche lavorativo –, possiamo chiedere che la nostra vita, i nostri occhi e il nostro cuore, possano amare Cristo nell’altro, pur nell’inevitabile fragilità della nostra condizione umana, riconoscendo in ogni persona la voce di Cristo che ci chiede di amarlo e di farci servi inutili ma chiamati a donare l’amore immeritatamente ricevuto.

Ecco quindi che questo ministero, immenso e ancora tutto da scoprire, si configura anche come possibilità di una grande educazione a vivere solo contemplando e mendicando la presenza di Gesù dentro tutte le creature. È forse questa, dunque, la grande promessa: sperimentare come Cristo desidera tenerci sempre più vicini alla sua stessa vita, lasciando che sia lui e renderci familiari a sé, suoi amici, ora e per sempre.

Maria Segato – Parrocchia di Altichiero

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“Piccoli” di fronte alle grazie di Dio

Proprio nel mese in cui le preghiere alla Madre di Dio ci portano a lei con l’affetto più caldo, ha senso meditare una considerazione di Romano Guardini: «Non si può vietare a qualcuno di aver più gusto per una devozione privata che per la freddezza aspra dell’ufficio della Messa. Ma egli non può dire che la Liturgia è priva di vita, rigida, poiché egli stesso non riesce ancora a padroneggiare con l’animo queste forme ampie e forti. […] Dobbiamo renderci conto di quanto profondamente siamo ancora radicati nell’individualismo e nel soggettivismo, di quanto siamo disabituati al richiamo delle grandezze e di quanto sia piccola la misura della nostra vita religiosa. Deve risvegliarsi il senso dello stile grande nella preghiera, la volontà di coinvolgere anche in essa la nostra esistenza. Ma la via verso queste mete è la disciplina, la rinuncia a una sentimentalità morbida; un serio lavoro, svolto in obbedienza alla Chiesa, in rapporto al nostro essere e al nostro comportamento religioso». Lo scriveva in Formazione liturgica e intendeva dire la grandezza dell’amore cristiano: esattamente quello che ci vuole “piccoli”, adoranti di fronte alle grazie che Dio ci dona. È un amore che vince l’egoismo, si slancia verso il prossimo, trova pace nell’obbedienza. Guardini lo vedeva minacciato dall’individualismo, che i progressi della tecnica e le correnti filosofiche del tempo rendevano prepotente. Lusingato da un’illusoria autonomia, ripiegato su se stesso, l’uomo perdeva la vocazione a lodare e servire il Signore, smarrendosi in un autocompiacimento tanto accattivante quanto sterile.

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Punto dopo punto teologia e Scrittura prendono forma

Le suore missionarie francescane di Maria hanno cucito un capolavoro dell’arte capace di stare accanto a opere di Bellini e Tintoretto rubando loro la meraviglia. È una pianeta ricamata per san Pio X, esposta in una sala della mostra “La Maddalena e la Croce”, che rimarrà aperta fino al 13 luglio al Museo di Santa Caterina di Treviso.

Ovviamente ai piedi della croce c’è lei, l’apostola degli apostoli, che piange con il viso nascosto tra le mani. Un angelo vestito di violetto regge la scritta “Consummatum est”, mentre il suo compagno raccoglie in un ampio calice le gocce di sangue che escono dalle ferite del Signore. Il Figlio di Dio, caduto nella morte come in un sonno di indicibile tranquillità, è re e centro dell’opera. La catena degli angeli ritaglia una mandorla nell’oro dello sfondo e Gesù è di una bellezza radiosa e mite, il corpo perfettamente obbediente a una logica che è lui stesso e che gli uomini intravvedono solo in mezzo alle nubi dell’inquietudine. Il fiotto che sgorga dal suo costato è pieno di teologia e di Scrittura: una treccia di rosa e di bianco, sangue e acqua, che un altro calice, in mano all’angelo più giovane di tutti, beve per l’eternità.

Punto dopo punto, l’arte fa sì che ogni creatura intorno al Creatore abbia un’emozione leggibile sul viso. La Madre di Dio, in piedi a mani giunte, incapace di lasciarsi distrarre dai dubbi. Giovanni, che già sa contemplare il sangue raccolto nel calice e non più il volto umano del Signore. Il centurione caduto in ginocchio. Le donne impaurite e attratte da quel trionfo davanti a cui il mondo non può che provare imbarazzo. I tre soldatacci che si giocano ai dadi la tunica di Gesù, reliquia che ha custodito il mistero del Dio fatto carne. Il peggiore: il sacerdote che si volta sdegnoso a braccia conserte, come uno che ha liquidato un concorrente neanche degno di essergli messo a paragone.

Un sacro anonimato protegge l’identità delle artiste che hanno ricamato questo capolavoro perché il Santo Padre potesse celebrare degnamente la Liturgia. Per loro ci dev’essere solo il nome di figlie.

Anna Valerio

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Una veste è comune a tutti i ministri

 

Non è tanto opportuno, nell’ambito della Liturgia, usare il termine “paramenti”; troppo forte l’assonanza con la mondana “parata”, il nesso con l’identificabilità di un grado, di un ruolo, con le mostrine, il costume di scena. Per celebrare non si usano “paramenti”, ma vesti, e una è comune a tutti i ministri di qualsiasi grado. Guardiamo l’accolito accanto all’altare: egli indossa l’alba bianca. Il candore di cui si ricopre il ministrante è lo stesso del camice per la santa Messa che porta il Sommo Pontefice, o su cui un diacono aggiunge la stola e la dalmatica, un presbitero la stola e la casula, un vescovo la stola, la casula, la mitria, il pastorale e, se arcivescovo, il pallio. La veste delle vesti, il fondamento di ogni altra, è quella del Battesimo, figura del candore del Risorto. Ecco perché sarebbe indispensabile tornare all’uso del bianco perfetto, abbandonando lanette e morbidi beige, lontani dal nitore della rinascita pasquale, e, al contempo, ricordare che una veste liturgica ha bisogno di essere spiegata ed è il corpo che la spiega. Un presbitero, un diacono, un vescovo sguarniti di una nobile gestualità rendono l’abito muto, inutile.

I ministri, nella Liturgia, si sopravvestono, perché ciò che compiono è escatologico: anticipa, nel segno, la Pasqua nella sua pienezza. Il loro compito è “trattare” con la Pasqua ed è essa stessa a rivestirli di luce. Tra le persone che daranno corpo ai ministeri battesimali, non si dovrà allora mancare di trovare anche chi si prenda cura della sacrestia e faccia in modo che le vesti siano sempre lavate, pulite, mantenute integre, provvedendo a metterle a posto e a cucirle o a farle cucire dove ci sono strappi.

Gianandrea Di Donna

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Quattro liturgie, ciascuna è Pasqua

La Veglia non è un insieme di elementi rituali che per gradi vanno dalla benedizione del fuoco nuovo fino al culmine di un tripudio di “emotività” pasquale, come se si realizzasse un crescendo verso il “momento della Risurrezione”. Il rito è composto di quattro Liturgie (Lucernario, Liturgia della Parola, Liturgia battesimale e Liturgia eucaristica), che sono, ciascuna, compiutamente Pasqua.
La Pasqua di Cristo è una colonna di fuoco (Es 13,21) e di luce, nella quale siamo stati immersi per essere illuminati dal suo amore.
La Pasqua di Cristo è la persona del Verbo che interpreta tutte le pagine delle Scritture mostrando ciò che si riferisce a lui e ci interpella fino a immergerci in sé.
La Pasqua di Cristo è il passaggio del Mar Rosso, l’immersione nel Giordano, perché, usciti e rinati, veniamo crismati, abitati dallo Spirito Santo che prega in noi (Rm 8.26), ci porta a Cristo, intercede per noi, aiuta la nostra incapacità, illumina la nostra mente e scalda il nostro cuore guidandolo a Dio. Attraverso di lui si realizza l’unione a Cristo, poiché è nello Spirito del Figlio di Dio che siamo resi figli. L’Apostolo ci ricorda che «nessuno può dire “Gesù è Signore”, se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1 Cor 12,3). E nelle Catechesi sui Sacramenti, sant’Ambrogio afferma: «Chi si inebria dello Spirito è radicato in Cristo».
La Pasqua di Cristo è il suo Corpo e il suo Sangue nell’atto di offrirsi per noi e per la nostra salvezza: mangiando e bevendo questo cibo spirituale, siamo immersi nella sua vita donata e glorificata.

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Corriamo incontro allo Sposo, il Risorto

La Veglia pasquale è sempre stata la festa di coloro che “sprecano” e immolano il proprio tempo, come in un gioco d’amore, per il Risorto. In questa “notte veramente gloriosa”, lo Sposo irrompe e il suo palpito sono i sacramenti che generano alla fede – Battesimo, Cresima ed Eucaristia –, memorie viventi della Pasqua, la più straordinaria risorsa pastorale della Chiesa.
Già dal II secolo abbiamo le prime attestazioni di una Veglia pasquale che si protraeva per tutta la notte fino al canto del gallo. Verso il termine del IV secolo, papa Siricio la definiva “notte grande del Battesimo” e Leone Magno gli faceva eco riferendo che i neofiti vi giungevano dopo la lunga e impegnativa preparazione quaresimale. Nel V secolo, si cominciò a ritualizzare l’accensione dei lumi posti in mano ai fedeli e delle lampade della chiesa. Il passo successivo fu l’uso di un cero pasquale, sul quale veniva cantato un poetico e diffuso inno di lode: l’Exultet. L’ascolto di molti brani biblici, intervallati da salmi e litanie, fungeva da preghiera di attesa, mentre un corteo partiva dalla basilica e si recava nel Battistero, dove i catecumeni, dopo essere stati unti con olio esorcistico, aver rinunziato al diavolo e professato la fede trinitaria, venivano immersi nella vasca battesimale nel nome della Trinità Santa e, usciti dalle acque, erano unti con olio “di esultanza” misto a profumo: il santo Crisma. Rivestiti di un’alba, una veste bianca lucente come il sole, e portando un cero acceso, i neofiti si recavano all’altare per nutrirsi del Corpo e del Sangue del Signore e bere latte e miele, perché ormai erano giunti alla Terra promessa: Cristo stesso.
Alla Veglia è stata data una struttura quadripartita. La Pasqua della luce, con la liturgia solenne del cero e della diffusione della luce visibile, sacramento dell’invisibile splendore del Risorto; la Pasqua della Parola di Dio, dove si riconosce come l’Agnello trafitto e risorto balzi tra le pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento, che solo da lui prendono senso in pienezza; la Pasqua della rinascita dall’acqua e dallo Spirito, nella quale Cristo partecipa la propria vittoria sulla morte e il peccato a ogni uomo che lo segue; la Pasqua della Cena eucaristica dell’Agnello, in cui ci è offerto il cibo dei pellegrini, il pane che anticipa il banchetto eterno della redenzione.
C’è stata una stagione, nella storia del rito cristiano, in cui si è assistito all’esilio dei sacramenti dalla Veglia, e ciò ne ha causato una trasformazione e contrazione, facendole perdere l’identità più autentica, fino a renderla una sorta di meditazione sulla Pasqua, durante la quale i cristiani farebbero la scelta “adulta” di concedersi “un paio d’ore” di riflessione e ascolto della Parola di Dio sulla “centralità del mistero pasquale”… Ma la più gloriosa delle Liturgie della Chiesa è assolutamente irriducibile a un elitario e freddo contesto di preghiera-riflessione teologica. Questa celebrazione è “sacrificio” del tempo, regalato a un amato. Restiamo svegli perché aspettiamo l’arrivo del nuovo Adamo, il Risorto: lo guardiamo da lontano per vedere se arriva, lo invochiamo, ed è lui che prende l’iniziativa di venirci incontro. Non lo si può delimitare, descrivere, spiegare, circoscrivere. È grazia da ricevere. È uno sposo da attendere fino a mezzanotte per corrergli incontro (cfr. Mt 25,6).
La Veglia pasquale consegnataci dal Messale di Paolo VI ha ricollocato la celebrazione della Pasqua annuale in una relazione stretta con i sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell’Eucaristia, memorie viventi dell’agire del Signore, conformazione dei credenti a lui crocifisso, sepolto e risorto. Va sempre curato con sensibilità teologica l’accompagnamento di coloro che ricevono l’Iniziazione, perché sia sostegno della loro fede sia “prima” che “dopo” la celebrazione dei tre sacramenti pasquali. Il fine dell’evento materno ed ecclesiale dell’Iniziazione è infatti “additare”, “far riconoscere” il mistero della vita divina nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, ma le azioni liturgico-sacramentali, pur donando in sé stesse la grazia di Cristo, non sono riconoscibili e fruttuose in modo meccanico: vanno aiutate a dare frutto attraverso una paziente mistagogia di fede, che permetta ai credenti di imparare a scoprire che la loro forza e la loro assoluta necessità dipendono dal fatto che chi agisce in esse è Gesù Cristo, “velato” e allo stesso tempo “presente” con tutta la sua calda luce.

 

Gianandrea Di Donna

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Per celebrare il silenzio

 

All’inizio della Liturgia eucaristica, dopo la presentazione delle offerte, il presbitero dice: Orate fratresPregate, fratelli e sorelle, perché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente. A questa antica e veneranda formula offertoriale di invito alla preghiera, furono aggiunte (nel Messale Romano edizione II del 1983) altre formule di pari intensità, tra le quali: Pregate, fratelli e sorelle, perché il sacrificio della Chiesa, in questa sosta che la rinfranca nel suo cammino verso la patria, sia gradito a Dio Padre onnipotente.

Si comprende in modo chiaro come tale sosta debba essere intesa come una disposizione interiore a rinfrancare le forze, attingendo energia da quanto di più essenziale è dato alla Chiesa: la persona divina di Gesù Cristo. L’incontro, la sosta con lui, non è un astratto e vago ricordo di quanto egli ci avrebbe lasciato come eredità spirituale. Si tratta piuttosto di un tempo santo nel quale riconoscere un inatteso rovesciamento delle parti: non noi, non la Chiesa con le sue forze, ma Cristo agisce nella Chiesa, la regge, la conduce, la rinfranca e le dà vita. Mentre celebriamo i divini Misteri – e in modo particolarissimo l’Eucaristia – siamo chiamati a fare esperienza di come in essi il Signore agisca in prima persona. Potremmo dire che Liturgia cristiana è proprio una sosta che rinfranca, in quanto riconsegna a Cristo la guida della Chiesa e il primato della sua grazia nella vita pastorale.

Sarà spiritualmente fruttuoso riappropriarci di questa feconda e rinfrancante sosta che è la Liturgia(specie l’Eucaristia!), celebrata nel giorno del Signore risorto (e quotidianamente) nelle nostre parrocchie. Riappropriarci del suo essere sosta che le rinfranca, le corrobora, le nutre, le riaggancia all’essenziale, le rianima evangelicamente. Questo deve avvenire dando maggior fiducia alla potenza del rito in sé e non cadendo nell’ingenuità della didascalia didatticheggiante, tentazione perenne di una mal interpretata riforma liturgica.

A tal proposito, uno degli elementi rituali più importanti della celebrazione liturgica è il silenzio, spazio dell’agire divino, cui il Messale Romano dà più volte la qualifica di sacro. Esso viene definito come “parte della celebrazione”, capace di favorire l’attiva partecipazione dei fedeli (cfr. Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 30). Il silenzio, durante la Liturgia, è densissima esperienza antropologica dell’uomo che sosta, sospende le altre “attività”, per riconoscere, quasi estatico, l’invisibile presenza del Crocifisso risuscitato. Nel silenzio santo, verso il quale tutti i riti – se autenticamente celebrati – si dirigono, la Chiesa non tanto ascolta, ma “vede” il suo Signore.

Il silenzio santo, apparentemente inattivo, sospende ogni mediazione, ogni ministero, ogni parola e canto, affidando a tutti – fedeli laici e pastori indistintamente – la potestà di stare davanti a Dio faccia a faccia, tutti rivolti verso di lui.

In quel silenzioso spazio divino, come Chiesa del Signore risorto, sarà possibile riconoscere nella fede che il pane e il vino sono stati trasformati (transustanziati) per opera dello Spirito Santo nel Corpo e nel Sangue di Cristo, perché fosse trasformata (potremmo osare l’espressione transustanziata!) la Chiesa stessa in un solo mistico Corpo. Non è poca cosa, per la vita delle nostre parrocchie, darsi uno spazio apparentemente così poco dinamico, poco coinvolgente, poco emotivo, quale il silenzio, per riconoscere, con gli occhi della fede, che nella Liturgia la Chiesa riceve – per grazia – la luce del Vangelo, la gratuità della salvezza, la gioia della vita fraterna, la forza di amare, la speranza che non conosce tramonto…

La nostre parrocchie hanno l’opportunità di dare fiducia alla fede celebrata dal Popolo santo di Dio, lasciando che eserciti la sua azione sacerdotale, presentando a Dio l’offerta della sua vita, unita al Sacrificio di Cristo, credendo che questo stesso Popolo santo di Dio sappia – celebrando il silenzio – riconoscerlo presente nei Santi misteri, sappia adorarlo, sappia seguirlo sulla via del Vangelo, sappia obbedirgli, vivendo la vita fraterna e la carità umile e operosa.

I momenti più idonei per valorizzare il silenzio (indicati dai libri liturgici stessi), durante la celebrazione eucaristica, sono: durante l’atto penitenziale; dopo l’invito alla preghiera (“Preghiamo”) nelle orazioni;dopo le letture bibliche; dopo l’omelia; dopo la santa Comunione (specie dopo il Canto di comunione,senza dover concludere frettolosamente la celebrazione). È altresì possibile dare spazio al silenzio (al posto del ritornello) dopo ogni intenzione della Preghiera dei fedeli; il silenzio può essere valorizzato all’offertorio, pronunciando le preghiere di offerta (Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo…) sottovoce, come indica lo stesso Messale Romano. Densissimo il silenzio durante l’elevazione dell’Ostia e del Calice consacrati (nella Preghiera eucaristica), tenendo conto che non è mai ricordato a sufficienza il divieto assoluto di ogni sottofondo musicale: il grande e sacro silenzio dell’assemblea durante la Preghiera eucaristica è una delle forme più alte della sua partecipazione attiva. Il silenzio potrebbe essere molto proficuo spiritualmente durante la celebrazione delle Esequie cristiane; del Matrimonio(queste celebrazioni sono spesso “inquinate” da frastuono, applausi, elementi inadeguati al rito cristiano); durante la celebrazione della Liturgia delle Ore e durante l’Adorazione eucaristica. Può essere spiritualmente fruttuoso il recupero del silenzio in Quaresima: con l’uso della sola voce umana – senza l’accompagnamento dell’organo e degli altri strumenti musicali –, la possibile sostituzione di alcuni canti processionali con il silenzio (introito, offertorio, canto di Comunione)… Forme rituali molteplici aiutano non a “fare” silenzio ma a celebrare il silenzio.

Gianandrea Di Donna

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Matrimonio, una carne sola

Nei due decenni trascorsi da quando, nel 2004, è stato pubblicato il “nuovo” Rito del Matrimonio, la società ha vissuto cambiamenti inimmaginabili. La percezione dell’identità di uomo e donna è stata stravolta, eppure la novità che la Liturgia offriva alla Chiesa rimane vivida, con una ricchezza di segni che meritano di essere compresi e valorizzati come importanti risorse pastorali. Con questo obiettivo, l’Ufficio per la Liturgia e l’Ufficio di Pastorale della famiglia propongono il corso “Come la parrocchia celebra il Matrimonio”. Due incontri, mercoledì 19 e 26 marzo, alle 20.45, contemporaneamente nelle Chiese Parrocchiali di Solesino, Stra, Asiago e Sacro Cuore in Padova (e giovedì 20 e 27 marzo a Quero). Il corso è pensato tanto per i presbiteri e i diaconi, quanto per i laici che li affiancano nelle celebrazioni (in particolare i membri dei gruppi liturgici), ma anche per chi voglia approfondire dal punto di vista teologico il mistero di un Dio che si rivela come Amore increato.

La prima data sarà a cura dell’Ufficio Famiglia, che nei mesi scorsi ha raccolto presso varie parrocchie della Diocesi alcune domande su temi da ripensare per un aggiornamento. Nel secondo, l’Ufficio per la Liturgia si concentrerà sul rituale e la teologia del sacramento cristiano dell’amore coniugale, che a volte corre il rischio di essere inteso solo come il “momento magico” dove a farla da padroni sono gli affetti e le relazioni personali dei due sposi, i loro gusti, le loro musiche del cuore, le loro scelte estetiche. Una rinnovata e più accurata “introduzione ai misteri” permetterà di entrare nello spirito delle preghiere e delle molteplici azioni simboliche che compongono il rito del Matrimonio, scoprendone la stupenda ricchezza spirituale. Mentre crescono separazioni e divorzi, la Chiesa può opporre alla deriva lo sfolgorante annuncio di un Dio che è luce, bellezza, verità, carità, e continuare a offrire la cura amorosa dei suoi sacramenti.

Le riforme del 1975 e del 2004 mostrano la piena consapevolezza del legame tra le Nozze cristiane e l’Eucaristia, rendendo manifesto come sia solo la partecipazione alla Pasqua del Signore a permetterci di avere la capacità di un dono senza riserve, tanto nel campo dell’etica quanto in quello dei sentimenti. L’unione indissolubile e feconda, fino a diventare “una carne sola”, di un uomo e una donna non è un sogno romantico da costruire con le nostre forze; è un obiettivo di vita talmente alto da essere equiparabile alla vocazione a seguire Gesù che chiede di caricarsi del giogo soave della croce. La grazia effusa nella celebrazione del Matrimonio permette a una coppia di diventare simbolo, con la scelta di una vita insieme senza fratture, dell’alleanza eterna che Dio ha stabilito con l’umanità. Non va mai dimenticata questa prospettiva “dall’alto”.

La novità pastorale del 2004 sta soprattutto nei due modelli celebrativi proposti: il Rito del Matrimonio nella celebrazione eucaristica e il Rito del Matrimonio nella celebrazione della Parola di Dio, quest’ultimo secondo una duplice articolazione (tra battezzati e tra una parte cristiana e l’altra catecumena o non battezzata). La “flessibilità liturgica” è la modalità con cui la Chiesa prova ad andare incontro alla reale situazione di fede dei nubendi, senza costringerli a forzature. Se in certi casi l’Eucaristia risulta una proposta eccessiva, il Matrimonio “nella celebrazione della Parola di Dio” è l’occasione perché una coppia riprenda confidenza con l’annuncio della salvezza, primo passo sulla via di una rinnovata iniziazione cristiana.

Una prospettiva attualissima da considerare è la diffusa ministerialità che il sacramento del Matrimonio richiede. La parrocchia dovrebbe imparare a stringersi con calore intorno ai fidanzati, mettendo a disposizione i propri lettori, cantori, musicisti, accoliti e ministranti, le persone che si prendono cura dei fiori e dell’arredo, oltre che i catechisti e le coppie già sposate per l’accompagnamento. Ciò agirebbe in senso evangelizzatore sugli sposi, che farebbero un’esperienza davvero significativa di fraternità, e, al contempo, valorizzerebbe i carismi di chi presta il proprio servizio alla Chiesa. Ed è in questo senso che il corso desidera offrire gli spunti più concreti, secondo gli auspici del recente Sinodo diocesano, che ha individuato nella valorizzazione della ministerialità uno degli obiettivi fondamentali del futuro che ci attende.

Gianandrea Di Donna

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Dare fiducia al seme originario

«Riconoscenti per essere divenuti figli nel Figlio, facciamo ora memoria del Battesimo, dal quale, come da seme fecondo, nasce e prende vigore l’impegno di vivere fedeli nell’amore». Con il rito della memoria del Battesimo, gli sposi cristiani, partecipi del mistero pasquale di Cristo crocifisso e risorto, orientano le loro Nozze prima che come impegno, come risposta libera (e liberante) all’amore di Dio che li precede. Per questo la liturgia nuziale inizia con la memoria Baptismi, celebrata possibilmente presso il fonte battesimale, da raggiungersi con una processione.

Il rito, che prende il posto dell’atto penitenziale, si compone di una monizione iniziale, una invocazionein canto con acclamazione di ringraziamento per il dono del Battesimo dinanzi all’acqua benedetta; quindi l’aspersione dei nubendi e dell’assemblea, mentre si canta un’antifona adatta. Tutto è preceduto dall’atto rituale con cui sposi e assemblea raggiungono processionalmente il fonte battesimale, ricuperando un’autentica teologia dello spazio: le nostre assemblee, spesso “ingessate” (causa non ultima i banchi, di severa tradizione protestante, per assemblee “sedute” e “composte”, in ascolto del sermone) sono chiamate a ritrovare una tradizione cattolica (arcaica) che vuole assemblee “in piedi”, dinamiche, reattive ed esuberanti. Non “stare-vedere”, ma “andare-udire”! La scelta è quella di “tornare” al fonte, ianua Ecclesiœ (“porta di accesso” nella Chiesa), per dare fiducia a quel seme originario, il Battesimo, e ai suoi frutti di amore.

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Compagni di strada della famiglia nascente

Quando, nel 2004, i vescovi italiani hanno sentito il bisogno di offrire alle comunità cristiane il nuovo Rito del Matrimonio, le diocesi del Triveneto hanno accolto questo dono come un invito a ripensare anche l’accompagnamento pastorale delle coppie che domandano di unirsi nel sacramento. Quattro i protagonisti chiamati a entrare in gioco: fidanzati e accompagnatori, fisicamente impegnati a incontrarsi; Gesù maestro, presenza viva e discreta in ogni storia d’Amore; la comunità cristiana, riconoscente per il segno rinnovato di un Amore che continua a chiamare al dono di sé. Le storie dei fidanzati sono diventate spunto per riflessioni sui pilastri dell’essere in relazione, gli accompagnatori hanno iniziato a condividere le proprie esperienze di vita e di fede affrancandosi dalla rassicurante dimensione di ‘esperti’, la presenza di Gesù è stata condivisa nell’accostarsi insieme alla Parola e ai segni del celebrare… E la comunità cristiana? Oggi, a distanza di vent’anni, come si celebrano le Nozze cristiane nelle nostre comunità? Una possibile risposta è: sempre meno e con sempre meno consapevolezza.

Viene spontaneo invocare il calo demografico e l’aumento delle convivenze, la sensazione di crescente incertezza del futuro e la difficoltà di assumere un progetto per la vita che sembra serpeggiare tra le giovani generazioni. Emerge però anche la sensazione che la chiesa si accontenti di essere scenario passivo per celebrazioni sempre più abitate da professionisti del “giorno più bello della vita”.

Da questo dato muove la proposta formativa che stiamo portando in cinque zone della nostra diocesi, perché le nostre comunità si sentano chiamate a dare corpo e anima al celebrare le Nozze, anche quando a chiederlo sono coppie “sconosciute”. Se restiamo timidamente sulla soglia, invece di offrirci come compagni di strada alla famiglia nascente, rischiamo di lasciare un vuoto che resterà tale o sarà al più colmato da chi offre promesse di superficie, che non parlano al cuore umano come la Promessa attorno alla quale la comunità cristiana si raccoglie.

Chiara Barra e Federico Piovan

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