Archivi della categoria: Speciale Liturgia

Dare fiducia al seme originario

«Riconoscenti per essere divenuti figli nel Figlio, facciamo ora memoria del Battesimo, dal quale, come da seme fecondo, nasce e prende vigore l’impegno di vivere fedeli nell’amore». Con il rito della memoria del Battesimo, gli sposi cristiani, partecipi del mistero pasquale di Cristo crocifisso e risorto, orientano le loro Nozze prima che come impegno, come risposta libera (e liberante) all’amore di Dio che li precede. Per questo la liturgia nuziale inizia con la memoria Baptismi, celebrata possibilmente presso il fonte battesimale, da raggiungersi con una processione.

Il rito, che prende il posto dell’atto penitenziale, si compone di una monizione iniziale, una invocazionein canto con acclamazione di ringraziamento per il dono del Battesimo dinanzi all’acqua benedetta; quindi l’aspersione dei nubendi e dell’assemblea, mentre si canta un’antifona adatta. Tutto è preceduto dall’atto rituale con cui sposi e assemblea raggiungono processionalmente il fonte battesimale, ricuperando un’autentica teologia dello spazio: le nostre assemblee, spesso “ingessate” (causa non ultima i banchi, di severa tradizione protestante, per assemblee “sedute” e “composte”, in ascolto del sermone) sono chiamate a ritrovare una tradizione cattolica (arcaica) che vuole assemblee “in piedi”, dinamiche, reattive ed esuberanti. Non “stare-vedere”, ma “andare-udire”! La scelta è quella di “tornare” al fonte, ianua Ecclesiœ (“porta di accesso” nella Chiesa), per dare fiducia a quel seme originario, il Battesimo, e ai suoi frutti di amore.

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Compagni di strada della famiglia nascente

Quando, nel 2004, i vescovi italiani hanno sentito il bisogno di offrire alle comunità cristiane il nuovo Rito del Matrimonio, le diocesi del Triveneto hanno accolto questo dono come un invito a ripensare anche l’accompagnamento pastorale delle coppie che domandano di unirsi nel sacramento. Quattro i protagonisti chiamati a entrare in gioco: fidanzati e accompagnatori, fisicamente impegnati a incontrarsi; Gesù maestro, presenza viva e discreta in ogni storia d’Amore; la comunità cristiana, riconoscente per il segno rinnovato di un Amore che continua a chiamare al dono di sé. Le storie dei fidanzati sono diventate spunto per riflessioni sui pilastri dell’essere in relazione, gli accompagnatori hanno iniziato a condividere le proprie esperienze di vita e di fede affrancandosi dalla rassicurante dimensione di ‘esperti’, la presenza di Gesù è stata condivisa nell’accostarsi insieme alla Parola e ai segni del celebrare… E la comunità cristiana? Oggi, a distanza di vent’anni, come si celebrano le Nozze cristiane nelle nostre comunità? Una possibile risposta è: sempre meno e con sempre meno consapevolezza.

Viene spontaneo invocare il calo demografico e l’aumento delle convivenze, la sensazione di crescente incertezza del futuro e la difficoltà di assumere un progetto per la vita che sembra serpeggiare tra le giovani generazioni. Emerge però anche la sensazione che la chiesa si accontenti di essere scenario passivo per celebrazioni sempre più abitate da professionisti del “giorno più bello della vita”.

Da questo dato muove la proposta formativa che stiamo portando in cinque zone della nostra diocesi, perché le nostre comunità si sentano chiamate a dare corpo e anima al celebrare le Nozze, anche quando a chiederlo sono coppie “sconosciute”. Se restiamo timidamente sulla soglia, invece di offrirci come compagni di strada alla famiglia nascente, rischiamo di lasciare un vuoto che resterà tale o sarà al più colmato da chi offre promesse di superficie, che non parlano al cuore umano come la Promessa attorno alla quale la comunità cristiana si raccoglie.

Chiara Barra e Federico Piovan

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Non manchi mai la parte eucaristica

Il “libretto” per la celebrazione del Matrimonio ha bisogno che si faccia preliminarmente la scelta delle letture; ciò potrebbe rappresentare per gli sposi un importante itinerario spirituale. Il pdf scaricabile della CEI con il Lezionario andrebbe consegnato loro all’inizio del corso di preparazione, così hanno modo di leggersi le poco più che ottanta pericopi tra Antico e Nuovo Testamento e orientarsi sulle più adatte, nel rispetto dei tempi dell’anno liturgico. Le coppie vanno informate che in Avvento e Quaresima è fatto divieto di celebrare solennemente le Nozze, in ragione del clima penitenziale, e che, qualora decidessero per un sabato del Tempo di Pasqua, dopo le ore 16 è necessario usare letture ed eucologia delle domeniche di Pasqua (se invece la celebrazione avviene prima, si possono scegliere nel Lezionario del Matrimonio tra quelle indicate per il Tempo di Pasqua).

Si eviti di fare libretti a metà, dove manca la parte eucaristica. O c’è tutto, o meglio limitarsi a un foglio con i canti. In copertina sarebbe importante che la dicitura fosse: “Celebrazione eucaristica con il rito del Matrimonio di…” o “Celebrazione della Parola di Dio con il rito del Matrimonio di…”, non “Luca e Francesca sposi” o “Luca e Francesca 2025”, scelte emotivo-affettive improprie. Non stiamo celebrando loro, ma l’Eucaristia e la Parola di Dio, ed è nel corso della Pasqua del Signore che avviene il Matrimonio di Luca e Francesca.

La fattura del libretto è bene sia semplice, per cui basta una spillatura, senza costosi nastri. Le immagini dovrebbero uscire dagli stereotipi, evitando tramonti, fedi incrociate e colombine che si baciano: una raffigurazione di Maria e del Signore, oppure una fotografia della chiesa parrocchiale, metafora della Chiesa sposa di Cristo e segno del luogo che accoglie la coppia.

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“Abbiate coraggio”

Il mese intensivo che l’Ufficio per la Liturgia ha dedicato alla formazione, in questo inizio del 2025, aveva al centro la sfida, impegnativa perché molto concreta, di esplorare per la prima volta la questione dei ministeri istituiti del lettore, dell’accolito e del catechista. Il Papa Francesco, in linea con gli spunti dati già da san Paolo VI nel 1974, l’ha affidata alle Chiese locali, chiedendo che vengano individuate tra i laici persone che, dopo aver acquisito le competenze necessarie, accettino di porsi in modo stabile a servizio delle Diocesi. I ministri ordinati – vescovo, presbiteri e diaconi – potranno richiedere il loro aiuto in vari ambiti, non ultimo quello della promozione e cura dei ministeri battesimali su cui faranno affidamento le parrocchie del futuro prossimo. È una novità e quindi va presentata, interrogata, capita, soppesata, gestita con delicatezza, ma anche amata, trattata con un sì nel cuore, di obbedienza e di speranza.

Abbiamo ascoltato questo sì dalle labbra dell’Arcivescovo di Torino, il Cardinal Roberto Repole, che ha portato la sua esperienza di pastore e teologo attento e generoso, della professoressa Emanuela Buccioni, che lo ha individuato tra le righe della Sacra Scrittura, del Reverendo Giuseppe Como, vicario episcopale dell’Arcidiocesi di Milano, che ha spiegato come la sua Chiesa si sia mossa prontamente, in obbedienza al Papa, per formare i primi candidati ai ministeri istituiti. E a questo sì siamo stati invitati con magnifica autorevolezza dal Prefetto del Dicastero per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti, il Cardinal Arthur Roche. Nel contesto familiare di Casa Madonnina, dove è stato ospitato come un pellegrino del Vangelo, ci ha rivolto parole che non possono non commuoverci e riempirci di forza: “Vi esorto ad avere coraggio, proprio voi che – figli di questa Chiesa di Dio che è in Padova – siete gli eredi di una tradizione cristiana lunga, forte e illuminata: siete gli eredi di San Prosdocimo e della martire Giustina; avete conosciuto l’ardimento del Doctor evangelicus Sant’Antonio di Padova, la genialità pastorale di San Gregorio Barbarigo; voi custodite le spoglie mortali dell’Evangelista della misericordia San Luca. I vostri Vescovi hanno inviato, tra i primi nel mondo, i missionari fidei donum; avete la grazia delle opere della Carità, quali l’Opera della Provvidenza Sant’Antonio, la Casa Madre Teresa di Calcutta, le Cucine economiche popolari per i più poveri; custodite preziosi tesori d’arte come il Battistero della Cattedrale e luoghi straordinari dove si sono celebrati e si celebrano i divini misteri; la vostra Biblioteca Capitolare conserva il Sacramentario Paduense, testimone della ricchezza straordinaria dell’epoca d’oro della Liturgia romana di Papa Gregorio Magno. Vi esorto, unitamente alle Diocesi che hanno avviato il processo di discernimento, formazione e istituzione di lettori, accolti e catechisti, a iniziare. La Chiesa ne ha bisogno!”

La storia mostra quanto sia stato importante, all’epoca della prima evangelizzazione, l’apporto di coloro che nelle comunità cristiane svolgevano il ministero di “maestri”, “lettori”, “accoliti”. I laici accoglievano il giogo soave e liberante del servizio in mezzo alle difficoltà più drammatiche, e così la fede nel Signore conquistava i popoli. Oggi le fatiche sono di segno opposto – l’indifferenza e l’aridità critica –, ma la risposta non può che essere chinarsi con slancio a lavare i piedi dei fratelli, correre con slancio a dare aiuto ai bisognosi, annunciare con slancio la vittoria della Croce sul male e sulla morte, accostarsi con slancio all’altare. Mostrare come questa sia l’unica scelta di vita ‘logica’, per un giovane in cerca di orientamento e per un vecchio in cerca di un orizzonte, per gli sposi e i genitori, i sani e i malati, i poveri e i ricchi, i reietti e i potenti, perché in un istante la nostra sicurezza materiale può venire meno, mentre tutto ciò che si fa per amore di Cristo e della sua Chiesa è speranza vera, abbondanza di vita, salvezza. Tutto: anche i nostri umani fallimenti.

Percorrere nei vari incontri l’ampio territorio diocesano, da Quero a Solesino, da Asiago a Strà, ha dato modo di riconoscere segni incoraggianti e problemi da affrontare. Uno tra tutti: la crisi del sacramento del Matrimonio, che rischia di essere accolta con rassegnazione. La sfida invece resta aperta, con la proposta, in marzo, di un breve corso in due date (in collaborazione con l’Ufficio di Pastorale della Famiglia) sulla celebrazione delle Nozze cristiane.

Anna Valerio

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Di fronte al Mistero

 

La solennità del Natale del nostro Signore Gesù Cristo comincia a essere celebrata in un’epoca relativamente tarda. Fino al VI secolo, non esisteva una struttura di anno liturgico come la pensiamo oggi, scandita dai due grandi misteri che sono quasi i fuochi di un’ellisse: la Pasqua del Signore e la sua manifestazione nella carne, il Natale. La Chiesa dell’epoca sub apostolica si limitava a celebrare la Pasqua settimanale, la “domenica” (il “giorno del Risorto”), e solo in seguito si è data una Pasqua annuale, nella domenica che seguiva al plenilunio di primavera. Sarà nelle zone del nord Europa che comincerà a concentrarsi una particolare ritualità attorno al Solstizio d’inverno, il momento in cui le ore di luce, dopo il lento declino, riprendono a crescere. Nella città di Roma, i pagani erano soliti festeggiare, tra il 24 e il 25 dicembre, il Dies natalis Solis Invicti, il cosiddetto “Natale del Sole Invincibile”. I cristiani trasfigurano questa festa nel segno dell’“Oriens ex alto”, Cristo, e cominciano a fare memoria della sua incarnazione.

Il ciclo delle celebrazioni della Pasqua settimanale si arricchisce così, prima, della Pasqua annuale, con la sua Veglia, grembo dei sacramenti dell’Iniziazione cristiana, e poi, qualche secolo più tardi, del Natale, nel Dies natalis Solis Invicti. Intorno a queste due solennità si articola un tempo che le prepara e le segue. Nel caso della Pasqua, è la Quaresima, culminante nel Triduum Sanctum, cui succede il Tempo di Pasqua come un unico giorno dove l’alleluja non si spegne. Per il Natale, l’Adventus, periodo di attesa trepidante della salvezza, connotato da un sapore nordico; una sorta di Quaresima invernale, nata perché i vescovi non riuscivano più a smaltire il numero di catecumeni che dovevano essere battezzati nella notte di Pasqua e avevano cominciato a fissare, oltre alla “Madre di tutte le veglie”, un’altra data nel corso dell’anno in cui celebrare i Battesimi, e questa era spesso l’Epifania.

Se la solennità di Pasqua è preceduta da un periodo di preparazione immediata nella cosiddetta Settimana Santa, anche la memoria annuale dell’incarnazione del Signore viene anticipata pedagogicamente da un ciclo di otto giorni, che prende il nome di Ottavario e non ha niente a che fare con la tradizione popolare della novena di Natale. Le “ferie maggiori” dell’Ottavario si caratterizzano per la presenza, nella celebrazione dei Vespri, di antifone dai testi teologicamente impegnativi, che cominciano tutti con il vocativo “O”: O Sapientia (il 17 dicembre), O Adonai (il 18), O Radix Iesse (il 19), O Clavis David (il 20), O Oriens (il 21), O Rex gentium (il 22), O Emmanuel (il 23). Predisposte per l’ora vespertina, l’ora del farsi carne del Verbo di Dio, vengono cantate tre volte: all’inizio e alla fine del Magnificat e – da dopo la riforma del Concilio Vaticano II –, seppur con un testo più essenziale, come canto al Vangelo. Dal punto di vista musicale sono molto simili tra loro, con alcuni aggiustamenti sulla base del testo, perché il canto gregoriano nasce a servizio delle parole e si piega volentieri a modificare, seppur di poco, l’andamento melodico.

Il Padre Guéranger – che rifondò, nell’Ottocento, la grande abbazia di Solesmes in Francia dopo la Rivoluzione francese – ebbe a dire che le antifone “O” sono “il midollo di tutto l’Avvento”. Nel contesto dell’Ottavario, si possono riconoscere le sue tre dimensioni tipiche, che guardano al Cristo che verrà alla fine dei tempi – nella prima parte; al Cristo che è venuto nella carne – nella seconda; e infine al Cristo che continua a venire.

La grandezza dei testi delle antifone maggiori e della musica che li trasfigura di assoluta bellezza ci permette di stare di fronte al mistero della rivelazione di Dio nella carne del Verbo. Hanno questa ampiezza, questa ricchezza, questa ‘gravità’, perciò le melodie vanno intonate molto basse, perché la Liturgia sta dicendo: “Attenzione, tu sei davanti a Gesù bambino, ti prepari a incontrarlo, l’infante deposto nella mangiatoia. Eppure lui è la Sapienza che esce dalla bocca dell’Altissimo.” Chiamare il “Puer natus” (come lo apostroferà l’introito del mattino di Natale) “O Sapienza” ci invita a tenere un atteggiamento tutt’altro che folcloristico, da stelline e zampogne. A considerare che, dopo aver ascoltato, a mezzanotte, il suggestivo e caro racconto dei pastori del Vangelo di Luca, nella Messa del giorno la Chiesa ci fa ascoltare il canto altissimo del prologo di Giovanni: “E il Verbo si fece carne”.

Gianandrea Di Donna

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Nel nostro operare il bene opera la volontà del Signore

 

Nel pellegrinaggio religioso di altri tempi si lasciava tutto, come i discepoli che hanno seguito Gesù. Si faceva testamento, se si possedeva qualcosa, e così si faceva un bilancio della propria vita: per chi ho vissuto, che ne ho fatto di quello che ho ricevuto, a chi sono debitore? La strada poi era una sorpresaanche per quanti seguivano itinerari già collaudati e trovavano sulla strada monasteri ospitali. Chi avrebbero incontrato? Persone che offrivano ristoro e, se ce n’era bisogno, cure? O diffidenti, impaurite da pellegrini incontrati in precedenza? La meta era ‘aperta’.

Il pellegrino faceva esperienza di essere ‘straniero’, ‘strano’ per chi incontrava, come straniera è ogni persona che è nata e abita qui, nella mia stessa terra, ma è spiazzata, tagliata fuori da ‘alfabeti’ nuovi che a chi li conosce rendono veloci, pratiche, sicure molte comodità: ‘alfabeti’ che esprimono una creatività sempre più raffinata, ma complessa, imprevedibile. Straniero è ogni nostro figlio che deve inserirsi in un mondo spesso già ‘pre-notato’, ‘pre-visto’, precisato, efficiente, ‘perfezionista’, dove non c’è posto per l’errore, per il non farcela, per il non sapere, per il non essere efficienti.

La prima lettera di Pietro ricorda ai cristiani, ‘stranieri e pellegrini’ (2,11), che essi sono “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui” (v. 9). Non c’è posto sulla terra in cui Dio non voglia raccontarsi proprio attraverso ‘pellegrini’ che testimoniano le meraviglie che ha operato nella loro vita. Lui li rende pellegrini di speranza, ‘che, operando il bene, chiudono la bocca’ a chi non ha incontrato la sua misericordia.

Possiamo disperare di trovare/ritrovare una comunione, o sperare che, mentre cerchiamo di operare il bene, il Signore operi la sua ‘volontà’, inventando strade nell’incomprensione, nel disprezzo, nella condanna, in una parola: nella croce. Una croce che non è mai solo nostra. Anche questo è dono di quel simbolo che siamo chiamati a vivere insieme l’anno prossimo, il Giubileo.

don Giuseppe Toffanello

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Indulgenza plenaria

 

Non si può comprendere il senso del Giubileo senza contemplare la meraviglia che è l’“indulgenza plenaria”. La sua complessa teologia va interpretata alla luce del sacramento della Penitenza, evitando di cadere in sbrigativi stereotipi polemici. Come cristiani, noi crediamo che al peccato corrisponda, qualora una persona non si converta, una pena eterna, cioè la rottura della comunione con Dio. Ma accanto a essa vi è una pena relativa, o “temporale”, tramite la quale si è chiamati a rimediare nel tempo al male commesso.

C’è un’idea di fondo da tenere presente: il fatto che il nostro peccato produca ineluttabili conseguenze. Pur se si lega a uno specifico evento, il male non si esaurisce entro quei confini e ha delle ricadute sia personali, spirituali, che sociali ed ecclesiali, tanto visibili quanto invisibili. Per tale ragione il sacramento della Penitenza ha una virtù ‘medicinale’ e sana sia l’anima del peccatore che le conseguenze del male compiuto. Il suo rituale si compone di tre elementi: l’accusa del peccato, la penitenza (che si sostanzia di opere di carità, preghiera, servizio, penitenze corporali, astinenza dal cibo, dalla bevanda, dai piaceri della vita), l’assoluzione con cui la Chiesa scioglie il fedele dalla colpa personale. Il perdono è sempre certo, per la grazia di Cristo (è il Signore, infatti, a riconciliarsi con chi è sinceramente pentito), ma l’efficacia del farmaco dipende dall’impegno di chi lo assume, ed è per questo che la perfezione in noi non c’è mai, al punto che continuiamo spesso a ripetere i peccati già commessi, mostrando che la medicina non ci ha guariti pienamente.

A questo esercizio penitenziale il pensiero cristiano ha dato il nome di “pena temporale”. Esso ha conosciuto, nella storia, forme, modalità, intensità diverse. Nel Medioevo, le pene erano severissime, e siccome quella che si riteneva più medicamentosa in assoluto era l’esclusione dalla Comunione, i fedeli, finché non terminavano il lungo esercizio penitenziale e ricevevano l’assoluzione, non potevano comunicarsi. La Chiesa si trova di fronte a un’impasse, perché tutti attendono di finire una penitenza che arriva a protrarsi per decenni e intanto sono esclusi dalla Mensa eucaristica.

Beata indulgenza…

Quando, nel 1300, papa Bonifacio VIII inaugura l’Anno santo e concede l’indulgenza, ha di fronte questo problema. Già prima del Giubileo molti tentavano soluzioni eterodosse. Le persone più abbienti ricorrevano addirittura a una prassi condannata con fermezza dalla Chiesa: pagare un monastero perché i monaci facessero tutte le penitenze al posto dei diretti interessati.

Bonifacio VIII regolamentarizza il sistema. Capisce che un’eccessiva durezza non è più sostenibile e con indulgenza, con maternità, dice: chiunque viene pellegrino a Roma, passa per la Porta santa, si confessa e prega secondo le intenzioni del Santo Padre riceve l’indulgenza plenaria. Essa non è un’amnistia rispetto al peccato, ma la remissione di tutte le penitenze temporali dovute. Secondo la teologia cattolica, perché questo può avvenire? Perché la Chiesa ha un proprio tesoro cui attingere. I meriti della Vergine Maria, degli apostoli, dei martiri, delle anime del Purgatorio, e perfino di chi recita un Rosario in una pieve sperduta: tutta quella santità vi confluisce. Se io mi sono realmente pentito, confessato, comunicato e ho pregato secondo le intenzioni del Sommo Pontefice, le penitenze che ho fatto male, con poca devozione, con fretta, con un impegno spirituale non adeguato vengono rimesse cogliendo da questo tesoro.

A seguito del Concilio di Trento, nel sacramento della Penitenza è avvenuta l’inversione per cui, dopo che il fedele ha accusato i peccati, il presbitero lo assolve subito e la penitenza è rimandata a dopo, ma così si è persa molta della sua forza medicinale. Per quanto il Rituale affermi che le pene debbano essere congrue, esse oggi si sono, di fatto, affievolite moltissimo, facendo sì che anche il pathos con cui ci protendiamo verso l’indulgenza giubilare sia meno vivo.

L’importante recupero che ci suggerisce l’Anno Santo è la coscienza che, perdonato il peccato, non possiamo non tenere conto che il male compiuto ha comunque delle conseguenze. Le sue tracce non spariscono dopo il perdono, e questo chiede che il nostro vivere colga ogni occasione che provvidenzialmente ci viene donata per illuminarsi di santità.

Gianandrea Di Donna

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Tutta la comunità è chiamata ad accompagnare all’altare

È visibile a tutti il cambiamento nel celebrare e vivere il Matrimonio, come pure sono note alcune criticità. Sembra spesso protrarsi un’adolescenza affettiva che ostacola la coppia nell’intendere l’amore come dono gratuito all’altro con una fedeltà durevole nel tempo. Vi è una fragilità di fede che si palesa nella debole adesione al Signore e nella fatica ad aprirsi alla sua volontà senza disgiungerla dalla sapienza della Chiesa. Vi è poi una fragilità ecclesiale, un affievolito senso di Chiesa, tanto che la celebrazione del sacramento del Matrimonio, come pure altri passaggi successivi, non si innestano nella comunità cristiana di origine o di appartenenza.

Eppure vi sono anche esperienze che manifestano una speranza genuina, un impegno generoso e convinto, nelle quali delusioni e limiti sono accolti come chiamata: un’opportunità per una comunione più profonda con il Signore. Sono matrimoni e vite familiari caratterizzati da relazioni motivate dall’amore e dal dono di sé e permeate da dialogo, ascolto, paziente attesa, disponibilità, tenerezza, umiltà. In essi la “vita di coppia è una partecipazione alla feconda opera di Dio, e ciascuno è per l’altro una permanente provocazione dello Spirito” (Francesco, Amoris laetitia 21). Questi matrimoni sono una profezia per la Chiesa e per la società: annunciano che è possibile “il coraggio di far parte del sogno di Dio, il coraggio di sognare con Lui, il coraggio di costruire con Lui, il coraggio di giocarci con Lui questa storia, di costruire un mondo dove nessuno si senta solo” (ibidem).

Come sottolinea papa Francesco in Amoris laetitia, oggi è richiesto “un impegno maggiore di tutta la comunità cristiana per la preparazione dei nubendi al matrimonio” (cf. n. 206), una sorta di “iniziazione al sacramento del Matrimonio” (cf. n. 207). Allo stesso tempo, come indicato nella presentazione (cf. n.9) della nuova edizione del Rito del Matrimonio in Italia, l’“accompagnamento mistagogico” risulta necessario per aiutare le coppie a vivere il proprio ministero “nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, tutti i giorni della loro vita”.

 

 Don Silvano Trincanato,

responsabile dell’Ufficio diocesano di pastorale della famiglia

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Per comprendere la logica del celebrare

All’interno di Gennaio alla Liturgia 2025, è previsto un ciclo di serate online – mercoledì 15, 22, 29 gennaio e 5 febbraio, alle ore 21 – dedicato alla formazione, in particolare pensando ai ministeri istituiti. Loro compito sarà cogliere la logica di ciò che si vuole realizzare quando si celebrano l’Eucaristia o un Vespro, un Matrimonio o le Esequie, oppure si porta la Comunione ai malati o si prepara la chiesa. Se immaginiamo il lettore come chi può occuparsi della Liturgia delle Ore, ma anche fare il catechista dei catecumeni, animare momenti di preghiera, proporre una lectio divina, sarebbe bene non gli mancassero nozioni di teologia della rivelazione, cristologia (con un’insistenza su Cristo Risorto esegeta delle Scritture), patristica, liturgia (recuperando la dimensione simbolica dell’ambone), ed è necessario che conosca i libri liturgici, dal lezionario alla Liturgia delle Ore.

L’accolito ha come compito il servizio all’altare, ma può diventare un riferimento per il culto eucaristico o i ministri straordinari della Comunione. Se il lettore si concentrerà sull’Antico Testamento, l’accolito trarrà ispirazione dalle lettere del Nuovo, dai testi dei Padri, dalla teologia dei sacramenti e del rito cristiano, e dovrà avere familiarità con il Messale e i rituali. Sarebbe bello che fosse in grado di fare da ponte tra la Messa celebrata nel “polo eucaristico” e le chiese parrocchiali che mancano di un presbitero, portando loro il “fermentum”, il pane appena consacrato, come si faceva nell’antichità. Così una celebrazione del giorno del Signore presieduta, magari, dal catechista istituito avrà il sapore di una profonda comunione ecclesiale.

Il corso è gratuito. Basta inviare una mail a iscrizioniliturgia@diocesipadova.it per ricevere il link.

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I ministeri istituiti

Ai ministeri istituiti del lettore, dell’accolito e del catechista sarà dedicato un ciclo di conferenze nell’ambito della rassegna Gennaio alla Liturgia 2025. L’intento non è solo che le si possa comprendere teologicamente, ma che si cominci a intravvedere il modo per situarle nella vita concreta della nostra diocesi.

Queste nuove e “antiche” forme di servizio non appartengono alla categoria dei ministeri ordinati – vescovo, presbitero, diacono – e non sono sovrapponibili ai ministeri battesimali. Dopo un adeguato itinerario di formazione, il lettore, l’accolito e il catechista vengono istituiti dal vescovo, che conferisce loro il mandato. Riconosciutone il carisma, l’idoneità e la preparazione, la Chiesa benedice i suoi figli, celebrando un rito per mezzo del quale essi ricevono un dono di grazia che li renda capaci di svolgere il proprio ‘ufficio’. E qui si aprono molte possibilità di servizio, tra le quali spicca l’aiuto che sapranno dare per la promozione e la cura dei ministeri battesimali.

Lettore e accolito operano nell’ambito del celebrare, ma nemmeno il catechista gli è estraneo. È a lui che si potrebbe domandare di guidare le celebrazioni domenicali nelle comunità che mancano di un presbitero. E tutti e tre non sono che espressioni diverse della diaconia sublime della carità.

È stato papa Paolo VI, con il Motu ProprioMinisteria quaedam” del 1972, a estendere lettorato e accolitato ai laici e non più solo ai candidati al sacramento dell’Ordine. E così, già negli anni Settanta e Ottanta, nel Triveneto, il vescovo di Udine Battisti e il patriarca di Venezia Cé avevano i loro ministri istituiti. Poi i desideri del Vaticano II sono andati smarriti ed è ora papa Francesco a volerli recuperare, aprendo la possibilità dell’istituzione anche alle donne e aggiungendovi la figura del catechista. Nel 2022, la CEI ha diffuso una “Nota” con cui invitava la Chiesa italiana a innestare la questione all’interno dell’itinerario sinodale. I vescovi vedono nel clima di confronto e apertura che si è creato la condizione più favorevole per riscoprire questo importante modo di valorizzare i carismi del popolo di Dio. Ed effettivamente in Italia c’è fermento. A Milano sta partendo un cammino biennale per i ministeri istituiti, tra lezioni online, incontri ed esperienze pratiche. A Torino è stato predisposto un itinerario curato dall’Istituto interdiocesano di formazione “Percorsi”, concentrato in tre weekend intensivi nel corso dell’anno. Ogni diocesi ha la facoltà di delineare un proprio specifico progetto.

Sarebbe un errore intendere i ministeri istituiti come un’oligarchia di potere, quasi si trattasse del lettore, del catechista e del chierichetto ‘di lusso’. Reintegrarli nella vita della Chiesa è un po’ riportarla al clima fervido dell’era subapostolica, quando la guida dello Spirito Santo ha chiamato al servizio del divino Maestro nobili e gente semplice, analfabeti e filosofi, uomini e donne di ogni popolo, lingua e nazione.

Lettori e accoliti istituiti daranno un contributo prezioso perché le celebrazioni tornino a essere un impegno entusiasmante, la loro bellezza un obiettivo da porsi ogni settimana; perché si pensi all’Eucaristia domenicale con il desiderio di farne, per quanto possibile, un capolavoro, una sinfonia di segni che dicano amore a Dio e ai fratelli, luce, saldezza, adorazione, verità. Non sempre i mezzi sono tanti, ma l’amore supera i limiti, inventa volentieri risorse dove ci sarebbe solo disincanto.

Persone che valgano da riferimento per le loro competenze e la grande disponibilità dovranno ricercare la collaborazione delle più varie figure a servizio del rito, dal sacrestano ai cantori, agli addetti alla cura delle vesti liturgiche. Anche l’accoglienza alla porta dei fedeli o l’uso dello spazio sacro è teologia, e se è teologia è sana azione pastorale, e se è sana azione pastorale promuove la partecipazione attiva dei fedeli, alimenta la fede, conduce alla carità.

Anna Valerio

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