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Per celebrare il silenzio

 

All’inizio della Liturgia eucaristica, dopo la presentazione delle offerte, il presbitero dice: Orate fratresPregate, fratelli e sorelle, perché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente. A questa antica e veneranda formula offertoriale di invito alla preghiera, furono aggiunte (nel Messale Romano edizione II del 1983) altre formule di pari intensità, tra le quali: Pregate, fratelli e sorelle, perché il sacrificio della Chiesa, in questa sosta che la rinfranca nel suo cammino verso la patria, sia gradito a Dio Padre onnipotente.

Si comprende in modo chiaro come tale sosta debba essere intesa come una disposizione interiore a rinfrancare le forze, attingendo energia da quanto di più essenziale è dato alla Chiesa: la persona divina di Gesù Cristo. L’incontro, la sosta con lui, non è un astratto e vago ricordo di quanto egli ci avrebbe lasciato come eredità spirituale. Si tratta piuttosto di un tempo santo nel quale riconoscere un inatteso rovesciamento delle parti: non noi, non la Chiesa con le sue forze, ma Cristo agisce nella Chiesa, la regge, la conduce, la rinfranca e le dà vita. Mentre celebriamo i divini Misteri – e in modo particolarissimo l’Eucaristia – siamo chiamati a fare esperienza di come in essi il Signore agisca in prima persona. Potremmo dire che Liturgia cristiana è proprio una sosta che rinfranca, in quanto riconsegna a Cristo la guida della Chiesa e il primato della sua grazia nella vita pastorale.

Sarà spiritualmente fruttuoso riappropriarci di questa feconda e rinfrancante sosta che è la Liturgia(specie l’Eucaristia!), celebrata nel giorno del Signore risorto (e quotidianamente) nelle nostre parrocchie. Riappropriarci del suo essere sosta che le rinfranca, le corrobora, le nutre, le riaggancia all’essenziale, le rianima evangelicamente. Questo deve avvenire dando maggior fiducia alla potenza del rito in sé e non cadendo nell’ingenuità della didascalia didatticheggiante, tentazione perenne di una mal interpretata riforma liturgica.

A tal proposito, uno degli elementi rituali più importanti della celebrazione liturgica è il silenzio, spazio dell’agire divino, cui il Messale Romano dà più volte la qualifica di sacro. Esso viene definito come “parte della celebrazione”, capace di favorire l’attiva partecipazione dei fedeli (cfr. Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 30). Il silenzio, durante la Liturgia, è densissima esperienza antropologica dell’uomo che sosta, sospende le altre “attività”, per riconoscere, quasi estatico, l’invisibile presenza del Crocifisso risuscitato. Nel silenzio santo, verso il quale tutti i riti – se autenticamente celebrati – si dirigono, la Chiesa non tanto ascolta, ma “vede” il suo Signore.

Il silenzio santo, apparentemente inattivo, sospende ogni mediazione, ogni ministero, ogni parola e canto, affidando a tutti – fedeli laici e pastori indistintamente – la potestà di stare davanti a Dio faccia a faccia, tutti rivolti verso di lui.

In quel silenzioso spazio divino, come Chiesa del Signore risorto, sarà possibile riconoscere nella fede che il pane e il vino sono stati trasformati (transustanziati) per opera dello Spirito Santo nel Corpo e nel Sangue di Cristo, perché fosse trasformata (potremmo osare l’espressione transustanziata!) la Chiesa stessa in un solo mistico Corpo. Non è poca cosa, per la vita delle nostre parrocchie, darsi uno spazio apparentemente così poco dinamico, poco coinvolgente, poco emotivo, quale il silenzio, per riconoscere, con gli occhi della fede, che nella Liturgia la Chiesa riceve – per grazia – la luce del Vangelo, la gratuità della salvezza, la gioia della vita fraterna, la forza di amare, la speranza che non conosce tramonto…

La nostre parrocchie hanno l’opportunità di dare fiducia alla fede celebrata dal Popolo santo di Dio, lasciando che eserciti la sua azione sacerdotale, presentando a Dio l’offerta della sua vita, unita al Sacrificio di Cristo, credendo che questo stesso Popolo santo di Dio sappia – celebrando il silenzio – riconoscerlo presente nei Santi misteri, sappia adorarlo, sappia seguirlo sulla via del Vangelo, sappia obbedirgli, vivendo la vita fraterna e la carità umile e operosa.

I momenti più idonei per valorizzare il silenzio (indicati dai libri liturgici stessi), durante la celebrazione eucaristica, sono: durante l’atto penitenziale; dopo l’invito alla preghiera (“Preghiamo”) nelle orazioni;dopo le letture bibliche; dopo l’omelia; dopo la santa Comunione (specie dopo il Canto di comunione,senza dover concludere frettolosamente la celebrazione). È altresì possibile dare spazio al silenzio (al posto del ritornello) dopo ogni intenzione della Preghiera dei fedeli; il silenzio può essere valorizzato all’offertorio, pronunciando le preghiere di offerta (Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo…) sottovoce, come indica lo stesso Messale Romano. Densissimo il silenzio durante l’elevazione dell’Ostia e del Calice consacrati (nella Preghiera eucaristica), tenendo conto che non è mai ricordato a sufficienza il divieto assoluto di ogni sottofondo musicale: il grande e sacro silenzio dell’assemblea durante la Preghiera eucaristica è una delle forme più alte della sua partecipazione attiva. Il silenzio potrebbe essere molto proficuo spiritualmente durante la celebrazione delle Esequie cristiane; del Matrimonio(queste celebrazioni sono spesso “inquinate” da frastuono, applausi, elementi inadeguati al rito cristiano); durante la celebrazione della Liturgia delle Ore e durante l’Adorazione eucaristica. Può essere spiritualmente fruttuoso il recupero del silenzio in Quaresima: con l’uso della sola voce umana – senza l’accompagnamento dell’organo e degli altri strumenti musicali –, la possibile sostituzione di alcuni canti processionali con il silenzio (introito, offertorio, canto di Comunione)… Forme rituali molteplici aiutano non a “fare” silenzio ma a celebrare il silenzio.

Gianandrea Di Donna

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Matrimonio, una carne sola

Nei due decenni trascorsi da quando, nel 2004, è stato pubblicato il “nuovo” Rito del Matrimonio, la società ha vissuto cambiamenti inimmaginabili. La percezione dell’identità di uomo e donna è stata stravolta, eppure la novità che la Liturgia offriva alla Chiesa rimane vivida, con una ricchezza di segni che meritano di essere compresi e valorizzati come importanti risorse pastorali. Con questo obiettivo, l’Ufficio per la Liturgia e l’Ufficio di Pastorale della famiglia propongono il corso “Come la parrocchia celebra il Matrimonio”. Due incontri, mercoledì 19 e 26 marzo, alle 20.45, contemporaneamente nelle Chiese Parrocchiali di Solesino, Stra, Asiago e Sacro Cuore in Padova (e giovedì 20 e 27 marzo a Quero). Il corso è pensato tanto per i presbiteri e i diaconi, quanto per i laici che li affiancano nelle celebrazioni (in particolare i membri dei gruppi liturgici), ma anche per chi voglia approfondire dal punto di vista teologico il mistero di un Dio che si rivela come Amore increato.

La prima data sarà a cura dell’Ufficio Famiglia, che nei mesi scorsi ha raccolto presso varie parrocchie della Diocesi alcune domande su temi da ripensare per un aggiornamento. Nel secondo, l’Ufficio per la Liturgia si concentrerà sul rituale e la teologia del sacramento cristiano dell’amore coniugale, che a volte corre il rischio di essere inteso solo come il “momento magico” dove a farla da padroni sono gli affetti e le relazioni personali dei due sposi, i loro gusti, le loro musiche del cuore, le loro scelte estetiche. Una rinnovata e più accurata “introduzione ai misteri” permetterà di entrare nello spirito delle preghiere e delle molteplici azioni simboliche che compongono il rito del Matrimonio, scoprendone la stupenda ricchezza spirituale. Mentre crescono separazioni e divorzi, la Chiesa può opporre alla deriva lo sfolgorante annuncio di un Dio che è luce, bellezza, verità, carità, e continuare a offrire la cura amorosa dei suoi sacramenti.

Le riforme del 1975 e del 2004 mostrano la piena consapevolezza del legame tra le Nozze cristiane e l’Eucaristia, rendendo manifesto come sia solo la partecipazione alla Pasqua del Signore a permetterci di avere la capacità di un dono senza riserve, tanto nel campo dell’etica quanto in quello dei sentimenti. L’unione indissolubile e feconda, fino a diventare “una carne sola”, di un uomo e una donna non è un sogno romantico da costruire con le nostre forze; è un obiettivo di vita talmente alto da essere equiparabile alla vocazione a seguire Gesù che chiede di caricarsi del giogo soave della croce. La grazia effusa nella celebrazione del Matrimonio permette a una coppia di diventare simbolo, con la scelta di una vita insieme senza fratture, dell’alleanza eterna che Dio ha stabilito con l’umanità. Non va mai dimenticata questa prospettiva “dall’alto”.

La novità pastorale del 2004 sta soprattutto nei due modelli celebrativi proposti: il Rito del Matrimonio nella celebrazione eucaristica e il Rito del Matrimonio nella celebrazione della Parola di Dio, quest’ultimo secondo una duplice articolazione (tra battezzati e tra una parte cristiana e l’altra catecumena o non battezzata). La “flessibilità liturgica” è la modalità con cui la Chiesa prova ad andare incontro alla reale situazione di fede dei nubendi, senza costringerli a forzature. Se in certi casi l’Eucaristia risulta una proposta eccessiva, il Matrimonio “nella celebrazione della Parola di Dio” è l’occasione perché una coppia riprenda confidenza con l’annuncio della salvezza, primo passo sulla via di una rinnovata iniziazione cristiana.

Una prospettiva attualissima da considerare è la diffusa ministerialità che il sacramento del Matrimonio richiede. La parrocchia dovrebbe imparare a stringersi con calore intorno ai fidanzati, mettendo a disposizione i propri lettori, cantori, musicisti, accoliti e ministranti, le persone che si prendono cura dei fiori e dell’arredo, oltre che i catechisti e le coppie già sposate per l’accompagnamento. Ciò agirebbe in senso evangelizzatore sugli sposi, che farebbero un’esperienza davvero significativa di fraternità, e, al contempo, valorizzerebbe i carismi di chi presta il proprio servizio alla Chiesa. Ed è in questo senso che il corso desidera offrire gli spunti più concreti, secondo gli auspici del recente Sinodo diocesano, che ha individuato nella valorizzazione della ministerialità uno degli obiettivi fondamentali del futuro che ci attende.

Gianandrea Di Donna

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Dare fiducia al seme originario

«Riconoscenti per essere divenuti figli nel Figlio, facciamo ora memoria del Battesimo, dal quale, come da seme fecondo, nasce e prende vigore l’impegno di vivere fedeli nell’amore». Con il rito della memoria del Battesimo, gli sposi cristiani, partecipi del mistero pasquale di Cristo crocifisso e risorto, orientano le loro Nozze prima che come impegno, come risposta libera (e liberante) all’amore di Dio che li precede. Per questo la liturgia nuziale inizia con la memoria Baptismi, celebrata possibilmente presso il fonte battesimale, da raggiungersi con una processione.

Il rito, che prende il posto dell’atto penitenziale, si compone di una monizione iniziale, una invocazionein canto con acclamazione di ringraziamento per il dono del Battesimo dinanzi all’acqua benedetta; quindi l’aspersione dei nubendi e dell’assemblea, mentre si canta un’antifona adatta. Tutto è preceduto dall’atto rituale con cui sposi e assemblea raggiungono processionalmente il fonte battesimale, ricuperando un’autentica teologia dello spazio: le nostre assemblee, spesso “ingessate” (causa non ultima i banchi, di severa tradizione protestante, per assemblee “sedute” e “composte”, in ascolto del sermone) sono chiamate a ritrovare una tradizione cattolica (arcaica) che vuole assemblee “in piedi”, dinamiche, reattive ed esuberanti. Non “stare-vedere”, ma “andare-udire”! La scelta è quella di “tornare” al fonte, ianua Ecclesiœ (“porta di accesso” nella Chiesa), per dare fiducia a quel seme originario, il Battesimo, e ai suoi frutti di amore.

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Compagni di strada della famiglia nascente

Quando, nel 2004, i vescovi italiani hanno sentito il bisogno di offrire alle comunità cristiane il nuovo Rito del Matrimonio, le diocesi del Triveneto hanno accolto questo dono come un invito a ripensare anche l’accompagnamento pastorale delle coppie che domandano di unirsi nel sacramento. Quattro i protagonisti chiamati a entrare in gioco: fidanzati e accompagnatori, fisicamente impegnati a incontrarsi; Gesù maestro, presenza viva e discreta in ogni storia d’Amore; la comunità cristiana, riconoscente per il segno rinnovato di un Amore che continua a chiamare al dono di sé. Le storie dei fidanzati sono diventate spunto per riflessioni sui pilastri dell’essere in relazione, gli accompagnatori hanno iniziato a condividere le proprie esperienze di vita e di fede affrancandosi dalla rassicurante dimensione di ‘esperti’, la presenza di Gesù è stata condivisa nell’accostarsi insieme alla Parola e ai segni del celebrare… E la comunità cristiana? Oggi, a distanza di vent’anni, come si celebrano le Nozze cristiane nelle nostre comunità? Una possibile risposta è: sempre meno e con sempre meno consapevolezza.

Viene spontaneo invocare il calo demografico e l’aumento delle convivenze, la sensazione di crescente incertezza del futuro e la difficoltà di assumere un progetto per la vita che sembra serpeggiare tra le giovani generazioni. Emerge però anche la sensazione che la chiesa si accontenti di essere scenario passivo per celebrazioni sempre più abitate da professionisti del “giorno più bello della vita”.

Da questo dato muove la proposta formativa che stiamo portando in cinque zone della nostra diocesi, perché le nostre comunità si sentano chiamate a dare corpo e anima al celebrare le Nozze, anche quando a chiederlo sono coppie “sconosciute”. Se restiamo timidamente sulla soglia, invece di offrirci come compagni di strada alla famiglia nascente, rischiamo di lasciare un vuoto che resterà tale o sarà al più colmato da chi offre promesse di superficie, che non parlano al cuore umano come la Promessa attorno alla quale la comunità cristiana si raccoglie.

Chiara Barra e Federico Piovan

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Non manchi mai la parte eucaristica

Il “libretto” per la celebrazione del Matrimonio ha bisogno che si faccia preliminarmente la scelta delle letture; ciò potrebbe rappresentare per gli sposi un importante itinerario spirituale. Il pdf scaricabile della CEI con il Lezionario andrebbe consegnato loro all’inizio del corso di preparazione, così hanno modo di leggersi le poco più che ottanta pericopi tra Antico e Nuovo Testamento e orientarsi sulle più adatte, nel rispetto dei tempi dell’anno liturgico. Le coppie vanno informate che in Avvento e Quaresima è fatto divieto di celebrare solennemente le Nozze, in ragione del clima penitenziale, e che, qualora decidessero per un sabato del Tempo di Pasqua, dopo le ore 16 è necessario usare letture ed eucologia delle domeniche di Pasqua (se invece la celebrazione avviene prima, si possono scegliere nel Lezionario del Matrimonio tra quelle indicate per il Tempo di Pasqua).

Si eviti di fare libretti a metà, dove manca la parte eucaristica. O c’è tutto, o meglio limitarsi a un foglio con i canti. In copertina sarebbe importante che la dicitura fosse: “Celebrazione eucaristica con il rito del Matrimonio di…” o “Celebrazione della Parola di Dio con il rito del Matrimonio di…”, non “Luca e Francesca sposi” o “Luca e Francesca 2025”, scelte emotivo-affettive improprie. Non stiamo celebrando loro, ma l’Eucaristia e la Parola di Dio, ed è nel corso della Pasqua del Signore che avviene il Matrimonio di Luca e Francesca.

La fattura del libretto è bene sia semplice, per cui basta una spillatura, senza costosi nastri. Le immagini dovrebbero uscire dagli stereotipi, evitando tramonti, fedi incrociate e colombine che si baciano: una raffigurazione di Maria e del Signore, oppure una fotografia della chiesa parrocchiale, metafora della Chiesa sposa di Cristo e segno del luogo che accoglie la coppia.

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“Abbiate coraggio”

Il mese intensivo che l’Ufficio per la Liturgia ha dedicato alla formazione, in questo inizio del 2025, aveva al centro la sfida, impegnativa perché molto concreta, di esplorare per la prima volta la questione dei ministeri istituiti del lettore, dell’accolito e del catechista. Il Papa Francesco, in linea con gli spunti dati già da san Paolo VI nel 1974, l’ha affidata alle Chiese locali, chiedendo che vengano individuate tra i laici persone che, dopo aver acquisito le competenze necessarie, accettino di porsi in modo stabile a servizio delle Diocesi. I ministri ordinati – vescovo, presbiteri e diaconi – potranno richiedere il loro aiuto in vari ambiti, non ultimo quello della promozione e cura dei ministeri battesimali su cui faranno affidamento le parrocchie del futuro prossimo. È una novità e quindi va presentata, interrogata, capita, soppesata, gestita con delicatezza, ma anche amata, trattata con un sì nel cuore, di obbedienza e di speranza.

Abbiamo ascoltato questo sì dalle labbra dell’Arcivescovo di Torino, il Cardinal Roberto Repole, che ha portato la sua esperienza di pastore e teologo attento e generoso, della professoressa Emanuela Buccioni, che lo ha individuato tra le righe della Sacra Scrittura, del Reverendo Giuseppe Como, vicario episcopale dell’Arcidiocesi di Milano, che ha spiegato come la sua Chiesa si sia mossa prontamente, in obbedienza al Papa, per formare i primi candidati ai ministeri istituiti. E a questo sì siamo stati invitati con magnifica autorevolezza dal Prefetto del Dicastero per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti, il Cardinal Arthur Roche. Nel contesto familiare di Casa Madonnina, dove è stato ospitato come un pellegrino del Vangelo, ci ha rivolto parole che non possono non commuoverci e riempirci di forza: “Vi esorto ad avere coraggio, proprio voi che – figli di questa Chiesa di Dio che è in Padova – siete gli eredi di una tradizione cristiana lunga, forte e illuminata: siete gli eredi di San Prosdocimo e della martire Giustina; avete conosciuto l’ardimento del Doctor evangelicus Sant’Antonio di Padova, la genialità pastorale di San Gregorio Barbarigo; voi custodite le spoglie mortali dell’Evangelista della misericordia San Luca. I vostri Vescovi hanno inviato, tra i primi nel mondo, i missionari fidei donum; avete la grazia delle opere della Carità, quali l’Opera della Provvidenza Sant’Antonio, la Casa Madre Teresa di Calcutta, le Cucine economiche popolari per i più poveri; custodite preziosi tesori d’arte come il Battistero della Cattedrale e luoghi straordinari dove si sono celebrati e si celebrano i divini misteri; la vostra Biblioteca Capitolare conserva il Sacramentario Paduense, testimone della ricchezza straordinaria dell’epoca d’oro della Liturgia romana di Papa Gregorio Magno. Vi esorto, unitamente alle Diocesi che hanno avviato il processo di discernimento, formazione e istituzione di lettori, accolti e catechisti, a iniziare. La Chiesa ne ha bisogno!”

La storia mostra quanto sia stato importante, all’epoca della prima evangelizzazione, l’apporto di coloro che nelle comunità cristiane svolgevano il ministero di “maestri”, “lettori”, “accoliti”. I laici accoglievano il giogo soave e liberante del servizio in mezzo alle difficoltà più drammatiche, e così la fede nel Signore conquistava i popoli. Oggi le fatiche sono di segno opposto – l’indifferenza e l’aridità critica –, ma la risposta non può che essere chinarsi con slancio a lavare i piedi dei fratelli, correre con slancio a dare aiuto ai bisognosi, annunciare con slancio la vittoria della Croce sul male e sulla morte, accostarsi con slancio all’altare. Mostrare come questa sia l’unica scelta di vita ‘logica’, per un giovane in cerca di orientamento e per un vecchio in cerca di un orizzonte, per gli sposi e i genitori, i sani e i malati, i poveri e i ricchi, i reietti e i potenti, perché in un istante la nostra sicurezza materiale può venire meno, mentre tutto ciò che si fa per amore di Cristo e della sua Chiesa è speranza vera, abbondanza di vita, salvezza. Tutto: anche i nostri umani fallimenti.

Percorrere nei vari incontri l’ampio territorio diocesano, da Quero a Solesino, da Asiago a Strà, ha dato modo di riconoscere segni incoraggianti e problemi da affrontare. Uno tra tutti: la crisi del sacramento del Matrimonio, che rischia di essere accolta con rassegnazione. La sfida invece resta aperta, con la proposta, in marzo, di un breve corso in due date (in collaborazione con l’Ufficio di Pastorale della Famiglia) sulla celebrazione delle Nozze cristiane.

Anna Valerio

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Di fronte al Mistero

 

La solennità del Natale del nostro Signore Gesù Cristo comincia a essere celebrata in un’epoca relativamente tarda. Fino al VI secolo, non esisteva una struttura di anno liturgico come la pensiamo oggi, scandita dai due grandi misteri che sono quasi i fuochi di un’ellisse: la Pasqua del Signore e la sua manifestazione nella carne, il Natale. La Chiesa dell’epoca sub apostolica si limitava a celebrare la Pasqua settimanale, la “domenica” (il “giorno del Risorto”), e solo in seguito si è data una Pasqua annuale, nella domenica che seguiva al plenilunio di primavera. Sarà nelle zone del nord Europa che comincerà a concentrarsi una particolare ritualità attorno al Solstizio d’inverno, il momento in cui le ore di luce, dopo il lento declino, riprendono a crescere. Nella città di Roma, i pagani erano soliti festeggiare, tra il 24 e il 25 dicembre, il Dies natalis Solis Invicti, il cosiddetto “Natale del Sole Invincibile”. I cristiani trasfigurano questa festa nel segno dell’“Oriens ex alto”, Cristo, e cominciano a fare memoria della sua incarnazione.

Il ciclo delle celebrazioni della Pasqua settimanale si arricchisce così, prima, della Pasqua annuale, con la sua Veglia, grembo dei sacramenti dell’Iniziazione cristiana, e poi, qualche secolo più tardi, del Natale, nel Dies natalis Solis Invicti. Intorno a queste due solennità si articola un tempo che le prepara e le segue. Nel caso della Pasqua, è la Quaresima, culminante nel Triduum Sanctum, cui succede il Tempo di Pasqua come un unico giorno dove l’alleluja non si spegne. Per il Natale, l’Adventus, periodo di attesa trepidante della salvezza, connotato da un sapore nordico; una sorta di Quaresima invernale, nata perché i vescovi non riuscivano più a smaltire il numero di catecumeni che dovevano essere battezzati nella notte di Pasqua e avevano cominciato a fissare, oltre alla “Madre di tutte le veglie”, un’altra data nel corso dell’anno in cui celebrare i Battesimi, e questa era spesso l’Epifania.

Se la solennità di Pasqua è preceduta da un periodo di preparazione immediata nella cosiddetta Settimana Santa, anche la memoria annuale dell’incarnazione del Signore viene anticipata pedagogicamente da un ciclo di otto giorni, che prende il nome di Ottavario e non ha niente a che fare con la tradizione popolare della novena di Natale. Le “ferie maggiori” dell’Ottavario si caratterizzano per la presenza, nella celebrazione dei Vespri, di antifone dai testi teologicamente impegnativi, che cominciano tutti con il vocativo “O”: O Sapientia (il 17 dicembre), O Adonai (il 18), O Radix Iesse (il 19), O Clavis David (il 20), O Oriens (il 21), O Rex gentium (il 22), O Emmanuel (il 23). Predisposte per l’ora vespertina, l’ora del farsi carne del Verbo di Dio, vengono cantate tre volte: all’inizio e alla fine del Magnificat e – da dopo la riforma del Concilio Vaticano II –, seppur con un testo più essenziale, come canto al Vangelo. Dal punto di vista musicale sono molto simili tra loro, con alcuni aggiustamenti sulla base del testo, perché il canto gregoriano nasce a servizio delle parole e si piega volentieri a modificare, seppur di poco, l’andamento melodico.

Il Padre Guéranger – che rifondò, nell’Ottocento, la grande abbazia di Solesmes in Francia dopo la Rivoluzione francese – ebbe a dire che le antifone “O” sono “il midollo di tutto l’Avvento”. Nel contesto dell’Ottavario, si possono riconoscere le sue tre dimensioni tipiche, che guardano al Cristo che verrà alla fine dei tempi – nella prima parte; al Cristo che è venuto nella carne – nella seconda; e infine al Cristo che continua a venire.

La grandezza dei testi delle antifone maggiori e della musica che li trasfigura di assoluta bellezza ci permette di stare di fronte al mistero della rivelazione di Dio nella carne del Verbo. Hanno questa ampiezza, questa ricchezza, questa ‘gravità’, perciò le melodie vanno intonate molto basse, perché la Liturgia sta dicendo: “Attenzione, tu sei davanti a Gesù bambino, ti prepari a incontrarlo, l’infante deposto nella mangiatoia. Eppure lui è la Sapienza che esce dalla bocca dell’Altissimo.” Chiamare il “Puer natus” (come lo apostroferà l’introito del mattino di Natale) “O Sapienza” ci invita a tenere un atteggiamento tutt’altro che folcloristico, da stelline e zampogne. A considerare che, dopo aver ascoltato, a mezzanotte, il suggestivo e caro racconto dei pastori del Vangelo di Luca, nella Messa del giorno la Chiesa ci fa ascoltare il canto altissimo del prologo di Giovanni: “E il Verbo si fece carne”.

Gianandrea Di Donna

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Nel nostro operare il bene opera la volontà del Signore

 

Nel pellegrinaggio religioso di altri tempi si lasciava tutto, come i discepoli che hanno seguito Gesù. Si faceva testamento, se si possedeva qualcosa, e così si faceva un bilancio della propria vita: per chi ho vissuto, che ne ho fatto di quello che ho ricevuto, a chi sono debitore? La strada poi era una sorpresaanche per quanti seguivano itinerari già collaudati e trovavano sulla strada monasteri ospitali. Chi avrebbero incontrato? Persone che offrivano ristoro e, se ce n’era bisogno, cure? O diffidenti, impaurite da pellegrini incontrati in precedenza? La meta era ‘aperta’.

Il pellegrino faceva esperienza di essere ‘straniero’, ‘strano’ per chi incontrava, come straniera è ogni persona che è nata e abita qui, nella mia stessa terra, ma è spiazzata, tagliata fuori da ‘alfabeti’ nuovi che a chi li conosce rendono veloci, pratiche, sicure molte comodità: ‘alfabeti’ che esprimono una creatività sempre più raffinata, ma complessa, imprevedibile. Straniero è ogni nostro figlio che deve inserirsi in un mondo spesso già ‘pre-notato’, ‘pre-visto’, precisato, efficiente, ‘perfezionista’, dove non c’è posto per l’errore, per il non farcela, per il non sapere, per il non essere efficienti.

La prima lettera di Pietro ricorda ai cristiani, ‘stranieri e pellegrini’ (2,11), che essi sono “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui” (v. 9). Non c’è posto sulla terra in cui Dio non voglia raccontarsi proprio attraverso ‘pellegrini’ che testimoniano le meraviglie che ha operato nella loro vita. Lui li rende pellegrini di speranza, ‘che, operando il bene, chiudono la bocca’ a chi non ha incontrato la sua misericordia.

Possiamo disperare di trovare/ritrovare una comunione, o sperare che, mentre cerchiamo di operare il bene, il Signore operi la sua ‘volontà’, inventando strade nell’incomprensione, nel disprezzo, nella condanna, in una parola: nella croce. Una croce che non è mai solo nostra. Anche questo è dono di quel simbolo che siamo chiamati a vivere insieme l’anno prossimo, il Giubileo.

don Giuseppe Toffanello

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Indulgenza plenaria

 

Non si può comprendere il senso del Giubileo senza contemplare la meraviglia che è l’“indulgenza plenaria”. La sua complessa teologia va interpretata alla luce del sacramento della Penitenza, evitando di cadere in sbrigativi stereotipi polemici. Come cristiani, noi crediamo che al peccato corrisponda, qualora una persona non si converta, una pena eterna, cioè la rottura della comunione con Dio. Ma accanto a essa vi è una pena relativa, o “temporale”, tramite la quale si è chiamati a rimediare nel tempo al male commesso.

C’è un’idea di fondo da tenere presente: il fatto che il nostro peccato produca ineluttabili conseguenze. Pur se si lega a uno specifico evento, il male non si esaurisce entro quei confini e ha delle ricadute sia personali, spirituali, che sociali ed ecclesiali, tanto visibili quanto invisibili. Per tale ragione il sacramento della Penitenza ha una virtù ‘medicinale’ e sana sia l’anima del peccatore che le conseguenze del male compiuto. Il suo rituale si compone di tre elementi: l’accusa del peccato, la penitenza (che si sostanzia di opere di carità, preghiera, servizio, penitenze corporali, astinenza dal cibo, dalla bevanda, dai piaceri della vita), l’assoluzione con cui la Chiesa scioglie il fedele dalla colpa personale. Il perdono è sempre certo, per la grazia di Cristo (è il Signore, infatti, a riconciliarsi con chi è sinceramente pentito), ma l’efficacia del farmaco dipende dall’impegno di chi lo assume, ed è per questo che la perfezione in noi non c’è mai, al punto che continuiamo spesso a ripetere i peccati già commessi, mostrando che la medicina non ci ha guariti pienamente.

A questo esercizio penitenziale il pensiero cristiano ha dato il nome di “pena temporale”. Esso ha conosciuto, nella storia, forme, modalità, intensità diverse. Nel Medioevo, le pene erano severissime, e siccome quella che si riteneva più medicamentosa in assoluto era l’esclusione dalla Comunione, i fedeli, finché non terminavano il lungo esercizio penitenziale e ricevevano l’assoluzione, non potevano comunicarsi. La Chiesa si trova di fronte a un’impasse, perché tutti attendono di finire una penitenza che arriva a protrarsi per decenni e intanto sono esclusi dalla Mensa eucaristica.

Beata indulgenza…

Quando, nel 1300, papa Bonifacio VIII inaugura l’Anno santo e concede l’indulgenza, ha di fronte questo problema. Già prima del Giubileo molti tentavano soluzioni eterodosse. Le persone più abbienti ricorrevano addirittura a una prassi condannata con fermezza dalla Chiesa: pagare un monastero perché i monaci facessero tutte le penitenze al posto dei diretti interessati.

Bonifacio VIII regolamentarizza il sistema. Capisce che un’eccessiva durezza non è più sostenibile e con indulgenza, con maternità, dice: chiunque viene pellegrino a Roma, passa per la Porta santa, si confessa e prega secondo le intenzioni del Santo Padre riceve l’indulgenza plenaria. Essa non è un’amnistia rispetto al peccato, ma la remissione di tutte le penitenze temporali dovute. Secondo la teologia cattolica, perché questo può avvenire? Perché la Chiesa ha un proprio tesoro cui attingere. I meriti della Vergine Maria, degli apostoli, dei martiri, delle anime del Purgatorio, e perfino di chi recita un Rosario in una pieve sperduta: tutta quella santità vi confluisce. Se io mi sono realmente pentito, confessato, comunicato e ho pregato secondo le intenzioni del Sommo Pontefice, le penitenze che ho fatto male, con poca devozione, con fretta, con un impegno spirituale non adeguato vengono rimesse cogliendo da questo tesoro.

A seguito del Concilio di Trento, nel sacramento della Penitenza è avvenuta l’inversione per cui, dopo che il fedele ha accusato i peccati, il presbitero lo assolve subito e la penitenza è rimandata a dopo, ma così si è persa molta della sua forza medicinale. Per quanto il Rituale affermi che le pene debbano essere congrue, esse oggi si sono, di fatto, affievolite moltissimo, facendo sì che anche il pathos con cui ci protendiamo verso l’indulgenza giubilare sia meno vivo.

L’importante recupero che ci suggerisce l’Anno Santo è la coscienza che, perdonato il peccato, non possiamo non tenere conto che il male compiuto ha comunque delle conseguenze. Le sue tracce non spariscono dopo il perdono, e questo chiede che il nostro vivere colga ogni occasione che provvidenzialmente ci viene donata per illuminarsi di santità.

Gianandrea Di Donna

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Tutta la comunità è chiamata ad accompagnare all’altare

È visibile a tutti il cambiamento nel celebrare e vivere il Matrimonio, come pure sono note alcune criticità. Sembra spesso protrarsi un’adolescenza affettiva che ostacola la coppia nell’intendere l’amore come dono gratuito all’altro con una fedeltà durevole nel tempo. Vi è una fragilità di fede che si palesa nella debole adesione al Signore e nella fatica ad aprirsi alla sua volontà senza disgiungerla dalla sapienza della Chiesa. Vi è poi una fragilità ecclesiale, un affievolito senso di Chiesa, tanto che la celebrazione del sacramento del Matrimonio, come pure altri passaggi successivi, non si innestano nella comunità cristiana di origine o di appartenenza.

Eppure vi sono anche esperienze che manifestano una speranza genuina, un impegno generoso e convinto, nelle quali delusioni e limiti sono accolti come chiamata: un’opportunità per una comunione più profonda con il Signore. Sono matrimoni e vite familiari caratterizzati da relazioni motivate dall’amore e dal dono di sé e permeate da dialogo, ascolto, paziente attesa, disponibilità, tenerezza, umiltà. In essi la “vita di coppia è una partecipazione alla feconda opera di Dio, e ciascuno è per l’altro una permanente provocazione dello Spirito” (Francesco, Amoris laetitia 21). Questi matrimoni sono una profezia per la Chiesa e per la società: annunciano che è possibile “il coraggio di far parte del sogno di Dio, il coraggio di sognare con Lui, il coraggio di costruire con Lui, il coraggio di giocarci con Lui questa storia, di costruire un mondo dove nessuno si senta solo” (ibidem).

Come sottolinea papa Francesco in Amoris laetitia, oggi è richiesto “un impegno maggiore di tutta la comunità cristiana per la preparazione dei nubendi al matrimonio” (cf. n. 206), una sorta di “iniziazione al sacramento del Matrimonio” (cf. n. 207). Allo stesso tempo, come indicato nella presentazione (cf. n.9) della nuova edizione del Rito del Matrimonio in Italia, l’“accompagnamento mistagogico” risulta necessario per aiutare le coppie a vivere il proprio ministero “nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, tutti i giorni della loro vita”.

 

 Don Silvano Trincanato,

responsabile dell’Ufficio diocesano di pastorale della famiglia

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