Archivi della categoria: Speciale Liturgia

Riscoprire la ricchezza della riconciliazione cristiana

La LII Settimana di Studio dell’Associazione Professori di Liturgia, dal titolo “Rito e riconciliazione”, è stata dedicata al Sacramento della Penitenza e alle diverse forme di riconciliazione cristiana nella loro relazione al contesto contemporaneo. Sono anni, infatti, che tale sacramento vive una crisi nelle comunità cristiane, nonostante i molteplici sforzi pastorali.

Il tema è stato affrontato da varie prospettive. L’apertura è stata affidata all’orizzonte filosofico: attraverso una rilettura delle opere di Jean Nabert, si è esplorata la consapevolezza che la coscienza acquisisce di sé quando ritorna sul male compiuto per comprenderlo e comprendersi (C. Canullo). Si è passati poi al confronto con i cammini di giustizia riparativa, in modo particolare alle ritualità in essi presenti (M. Serbo).

Alla prospettiva storica (medioevo, epoca moderna e contemporanea) è stata dedicata un’intera giornata, alla ricerca della ricostruzione della molteplicità delle prassi – anche oltre il sacramento stesso – che hanno abitato nel corso della storia il riconciliarsi nella tradizione cristiana (U. C. Cortoni, M. Al Kalak, E. Massimi). Non poteva mancare uno sguardo alle altre confessioni cristiane (D. H. Finatti, F. Santi Cucinotta). Infine gli affondi teologici sono stati affidati a K. Appel e A. Fumagalli. La relazione di chiusura è stata curata da Mons. Marco Busca, vescovo di Mantova, che ha raccolto i frutti del convegno aprendo alla necessità di un sistema penitenziale per il processo di riconciliazione del cristiano contemporaneo. La settimana inoltre è stata arricchita dalla presentazione del volume “tutto patavino” (Ripensare la penitenza, edd. R. Bischer, A. Toniolo) sulla III forma dell’Ordo Paenitentiae, frutto dei seminari di studio promossi dalle istituzioni teologiche venete. Ci si augura che le acquisizioni dei molteplici interventi possano realmente tradursi in prassi perché i fedeli cristiani abbiano modo di riscoprire la ricchezza della riconciliazione cristiana nelle sue molteplici forme.

Elena Massimi

Presidente Associazione Professori di Liturgia

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Cantare i salmi è più di dire. È entrare nel testo stesso

La prima pagina della Bibbia si apre con un inno alla creazione: una contemplazione poetica che andrebbe cantata. Tutta la Scrittura è ritmata da pause sonore, testi di inni di cui non conosciamo la musica, ma che ci indicano che l’indicibile viene evocato dalla poesia cantata. Un intero libro è dedicato alla raccolta dei Salmi: la Bibbia ebraica titola il Salterio Sefer tehillîm: Libro delle lodi. Questo nome ne sottolinea il contenuto, evidenziando che la lode è il senso fondamentale del Libro. In greco viene chiamato Psalterion, che indica lo strumento a corde utilizzato per accompagnare il canto. I Salmi sono quindi dei canti: limitare questi testi alla lettura li svilisce. Nella Costituzione Apostolica Divino Afflatu, san Pio X affermava: «Una parte ragguardevole della sacra Liturgia e del divino Ufficio, secondo l’uso già accolto nella Legge antica, è costituito da Salmi. Da essi nacque quella “voce della Chiesa” di cui parla Basilio, e la salmodia, “figlia di quella innodia […] che risuona incessantemente davanti al trono di Dio e dell’Agnello”».

Mentre la Torah insegna all’uomo come vivere la fede, i Salmi insegnano la fede attraverso la preghiera e il canto. Il Salterio è un libro teandrico: dal greco Theos – Dio e aner – uomo. Pur essendo scritti da uomini, i Salmi sono ispirati da Dio: è come se Dio ci avesse donato le parole con cui rivolgerci a lui. Nella Messa, il Salmo è la preghiera dell’assemblea che canta a Dio la risposta a quanto ricevuto nella prima lettura. Il testo sacro esige una risposta così alta che non può essere data che con un’altra parola di Dio. Cantare è più di dire: è entrare nel canto stesso che risuona nel cielo eterno. E se non esiste che una sola preghiera, quella di Cristo al Padre, nella quale entriamo grazie al gemito dello Spirito Santo (cfr. Rm 8,26), nella Liturgia delle Ore, sono i Salmi a costruire la preghiera: questi canti che Cristo aveva sulle labbra, ora li offre alla sua Sposa perché si unisca alla sua lode perenne.

 

Elide Siviero

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Giovani fino alla Croce

Il recente Sinodo sulla Sinodalità in più passaggi si è occupato del coinvolgimento dei giovani nella vita della Chiesa. Rimangono attuali alcune criticità, già evidenziate da Papa Francesco: “I giovani non vogliono essere intrattenuti, ma coinvolti […] Non sono il futuro, sono l’adesso di Dio” (Christus vivit, nn. 64–72). Gli stessi Vescovi osservano, nel documento finale del Sinodo: “Ascoltare i giovani vuol dire mettersi in discussione, riconoscere che molte delle loro domande sono rivolte a una Chiesa che percepiscono come distante, talvolta giudicante o poco significativa per la loro vita” (n. 16). E ancora: “Per una Chiesa sinodale è essenziale coinvolgere i giovani nei processi decisionali e nelle pratiche pastorali, riconoscendo i loro carismi e le loro competenze” (n. 17).

Il 2025 si è aperto così con il Seminario di studio “Giovani e Liturgia”, che ha riunito a Roma la Commissione Episcopale per la Liturgia, la Consulta dell’Ufficio Liturgico Nazionale e quella del Servizio Nazionale per la Pastorale Giovanile. Centro delle due giornate è stato l’intervento della professoressa Rita Bichi, che ha presentato il Rapporto Giovani 2024 dell’Istituto Toniolo, dove è descritto l’approccio delle nuove generazioni all’esperienza religiosa, con più di qualche accenno alla loro scarsa partecipazione alla Messa domenicale. Ai primi di aprile l’Università Pontificia Salesiana è tornata sull’argomento in una giornata di studio dal titolo: “Giovani, Bibbia e Liturgia. Esplorazioni Pastorali”. L’intento era di poter offrire prospettive pastorali innovative, nella speranza di attrarre le nuove generazioni alla vita liturgica, accogliendo con più disponibilità i loro linguaggi. ​

Eppure emerge anche un altro genere di sensibilità giovanile: ragazzi che guardano con gratitudine addirittura a quel “senso di costrizione” che il rigore del rito, fatto di norme da rispettare, suscita. Uno studente di Fisica ventiduenne del nostro Ateneo racconta così il suo amore per una Liturgia celebrata senza aggiustamenti, come il Concilio Vaticano II l’ha affidata alla Chiesa: è quasi “il sollievo di dover fare altro da ciò che la nostra spontaneità vorrebbe”.

La pensa allo stesso modo un diciannovenne che frequenta il Conservatorio ed è uno dei gregorianisti della Schola cantorum della Cattedrale di Padova. Ha invitato vari compagni e compagne di studi, suoi coetanei, a entrare nel coro diretto dal Maestro Alessio Randon, e adesso si trovano il martedì sera per le prove insieme agli altri membri esperti della Schola. Imparano il canto liturgico per eccellenza, il gregoriano, ma non solo: li abbiamo ascoltati nell’Elevazione musicale di Pasqua dedicata all’esigente polifonia cinquecentesca di Palestrina e de Victoria.

E se c’è addirittura, tra i loro amici, chi prega il Signore di fargli la grazia di consentirgli l’ingresso nella Certosa di Serra San Bruno, per una vita tutta consegnata alla lode di Dio, sull’altro fronte continuano a gridare i banchi vuoti delle Messe domenicali. Sarebbe imprudente non volerli ascoltare e non impegnarsi a tentare di porvi rimedio. Eppure, forse, la risposta che da decenni si è azzardata, costringendo la Liturgia ad assumere in modo a volte forzoso i linguaggi “dei giovani”, non è l’unica possibile (anche perché oggi la moda delle chitarre elettriche è superata dal ringhio dei testi minacciosi della trap). La formula che il Concilio Vaticano II ha coniato, chiedendo che la Messa sia un capolavoro di nobiltà e semplicità – “i riti splendano per nobile semplicità” (Sacrosanctum Concilium n. 34) –, deve mantenere la propria tensione, senza sacrificare né l’uno né l’altro dei due estremi. Solo così ci si potrà concentrare sullo “splendore”, da far irrompere nel mondo in tutta la sua potenza, che certo risulta quasi violenta per occhi abituati alla penombra. L’Evangelista Giovanni ci ha già insegnato quali sono i rischi: la tragica fragilità per cui “gli uomini amarono più le tenebre che la luce”. C’è un infantilismo dell’anima (accusato sempre, nella Bibbia, dai profeti) che porta le creature ad accontentarsi degli adescamenti del mondo. Ma i giovani non sono bambinetti. Papa Francesco, in Christus vivit, raccomandava che si permettesse loro di fare nella Chiesa esperienze forti, incarnate, comunitarie. Con il corredo delle loro energie al massimo dell’intensità, i ragazzi e le ragazze sono i più potenzialmente adatti a correre, in compagnia dei santi, fino al punto più alto in cui splende la gloria di Dio: la Croce.

Anna Valerio

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Fede, dottrina cattolica e poesia

Immediatamente dopo il “miracolo eucaristico di Bolsena” del 1263, Papa Urbano IV incaricò san Tommaso d’Aquino di comporre per la solennità del Corpus Domini alcuni inni eucaristici, tra i quali la sequenza Lauda Sion Salvatorem, la cui sezione più nota è l’Ecce Panis angelorum. Il testo latino unisce fede, retta dottrina cattolica e arte poetica, fino a prendere fuoco quando il Dottore angelico si slancia nella raccomandazione: “Quantum potes, tantum aude:/ quia maior omni laude,/ nec laudare sufficis” (“Quanto puoi, tanto osa, poiché [il Signore] è più grande di ogni lode e non si è mai in grado di lodarlo abbastanza”). Tommaso chiede che impieghiamo tutto l’ardore di cui siamo capaci nel rendere grazie a un Dio che continua a piantare nella nostra carne la Gerusalemme del cielo, la Sion della salvezza, donandoci il suo Corpo sacrificato e glorioso da accogliere nel nostro corpo mortale.

L’Eucaristia splende davanti agli occhi del santo, che desidera liberare tutti i credenti dalla cecità, dall’ignavia, dalla tiepidezza, dalla tentazione di servire due padroni: il Creatore dell’universo e le pretese dell’egoismo. È il momento di rallegrarsi, di esultare nella pienezza della fede, perché la vanità delle vanità cede il passo alla verità: “Vetustatem novitas,/ umbram fugat veritas,/ noctem lux eliminat” (“La novità mette in fuga le cose vecchie, la verità le ombre, la luce elimina la notte”). Finalmente sul volto anziano e amaro di Qohelet, profeta della “sublime ironia della polvere”, può disegnarsi il sorriso del buon raccolto, la meraviglia di una novità proprio nuova.

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Liturgia, “luogo” di ascolto del Dio che chiama tutti a sé

Dio chiama tutti a sé, «i giovani e le fanciulle, i vecchi insieme ai bambini» (Sal 148,12). Parla al cuore di ogni uomo e donna, lì dove si trova, e desidera la sua felicità e quanto di più bello, buono, grande e nobile si possa pensare. Questo la Chiesa chiama “salvezza”: una vita orientata al Dio che si spera un giorno di guardare faccia a faccia, così come egli è (cfr. 1Gv 3,2).

L’essere umano ha bisogno di vivere questo rapporto in una concretezza adatta alla propria corporeità; infatti Dio ci è venuto incontro nella storia di Israele e, pienamente, nella vita e nell’opera di Gesù di Nazareth, suo Figlio. Ogniqualvolta ci raduniamo per compiere ciò che ci orienta alla salvezza, egli si fa presente, perché ha promesso di essere con noi tutti i giorni sino alla fine del mondo (cfr. Mt 28,20). Ecco l’opera della Liturgia, che diviene la via di accesso, la soglia da varcare per arrivare al Padre (cfr. Gv 10,1ss). Ma essa è anche discrimine, distinzione tra le nostre attività quotidiane e ciò che facciamo per rispondere alla chiamata di Dio. Celebrare i misteri della fede è uno “stare fra”: siamo nel mondo e allo stesso tempo siamo “rapiti” e trasportati in una dimensione nella quale i gesti e le parole orchestrano un’azione fuori dal comune e, sotto queste sembianze rituali, significano e manifestano colui che si lascia appena intravedere: Gesù Cristo, che dona la sua vita perché la riceviamo in abbondanza. C’è quindi un’eccedenza di cose e di azioni, di parole e di gesti che segnano la separazione tra l’esistenza ordinaria e il tempo dell’incontro con Dio, anche se il tramite resta la materialità di questo mondo e la nostra carnalità, trasfigurata.

Non è strano vedere come la gioventù, specie nella fascia giovane-adulta, riscopra in modo molto radicale questo bisogno di Dio. Non di rado accade che, quando si fa verità e ci si azzarda a frenare l’inerzia, ci si chieda: dove sto andando? A che scopo? Ed è nella Liturgia che riconosciamo di poterci porre in ascolto del Dio che chiama tutti a sé, più intimo dell’intimo del nostro cuore (cfr. Agostino, Le confessioni III, 6-11).

 

Juan Diego Andrade
Facoltà Teologica del Triveneto (Padova)
laureando in Teologia

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È il luogo segreto della sapienza

Al numero 103 dell’enciclica Dilexit nos, Papa Francesco fa un omaggio alla figura più radiosa di credente: “Agostino scrive che Giovanni, l’amato, quando nell’ultima Cena chinò il capo sul petto di Gesù, si accostò al luogo segreto della sapienza. Non siamo di fronte a una semplice contemplazione intellettuale di una verità teologica. San Girolamo spiegava che una persona capace di contemplazione «non gode della bellezza del ruscello d’acqua, ma beve l’acqua viva del costato del Signore».” Il fanciullo Giovanni non sta parlando con Gesù come il giovane ricco, fermo davanti a lui nella presunzione di un confronto dialettico paritario. L’amore lo costringe a cercare un misterioso contatto, una calda confidenza, pura come il rannicchiarsi di un bimbo sul petto della madre.   

Nel paragrafo immediatamente precedente, Papa Francesco aveva richiamato l’interpretazione patristica della ferita nel fianco di Gesù come sorgente dei sacramenti: “I Padri della Chiesa, soprattutto dell’Asia Minore, hanno menzionato la ferita nel costato di Gesù come origine dell’acqua dello Spirito: della Parola, della sua grazia e dei sacramenti che la comunicano”. I Santi Segni della Chiesa non sono un’escogitazione pedagogica ma pulsazioni del Cuore stesso del Signore. La sua trafittura li ha riversati sull’umanità, e per mezzo di essi assaporiamo la comunione con Cristo quasi percependo – con l’udito, con la vista, con il tatto, con il gusto, con l’odorato – il delicato palpitare del suo petto.

Soprattutto nell’adorazione eucaristica (cui il Santo Padre fa riferimento al paragrafo 85), quando la fede e l’amore ci conquistano, non udiamo forse quella pulsazione, non vediamo il ritmico alzarsi e abbassarsi del suo costato, non percepiamo la verità di quel calore, non riusciamo perfino a gustarlo, non ne sentiamo il profumo?

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L’instancabile suo Amore

 

«Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). In queste parole, pronunciate da Gesù alla vigilia della sua morte, riecheggia la grande promessa custodita dalla compagnia umana e sacramentale della Chiesa: l’amicizia di Cristo, il legame eterno che Cristo stesso desidera stabilire con noi.

Il cammino che accompagna a vivere il compito del ministero straordinario della Comunione prende, nel nome e nel metodo, la forma del servizio, per essere occasione per contemplare la presenza vivente di Gesù, il suo amore instancabile che non teme di farsi piccolo in una particola e di affidarsi alle nostre misere mani per raggiungere i fratelli infermi e tutti coloro che, fragili nel corpo, attendono quel bacio eterno che trascende e nel contempo abbraccia la nostra natura umana.

Da pochi mesi ho potuto muovere i primi passi nella via di questo ministero e, con stupore e gratitudine, riconosco come tale servizio stia divenendo opportunità privilegiata non solo per donare la propria persona a Cristo (affinché tutto di noi possa essere conformato alla sua presenza vivente), ma per stare con lui ammirando il suo dono gratuito al mondo, l’amore con cui lui desidera raggiungere ogni creatura. Si può comprendere allora come la vera gioia e l’autentica pace risiedano in questa esperienza: nell’essere resi parte dell’amore con cui Gesù ama il mondo.

La prima domenica in cui ho portato la Comunione a una sorella inferma, compivo a piedi il breve tragitto dalla Chiesa alla sua abitazione pensando al dono ineffabile della Comunione stessa: a come, attraverso la Particola, il cuore di Gesù si offre per compenetrare il nostro stesso cuore; in fondo è questo l’unico Amore che ci salva, rendendo possibile il nostro cammino attraverso le vie, alle volte impervie e dolorose, della nostra esistenza. Poi, quando ho incontrato la sorella a me donata, e ho sollevato per la prima volta la Particola, lei ha sussultato e i suoi occhi sono diventati lucidi, commossi: lei era cosciente del dono di Cristo e attendeva tutto da questo. A quel punto, ho avuto io stessa un sobbalzo e mi sono chiesta: io, oggi, per cosa mi commuovo? Mi rendo conto che Cristo si fa carne per entrare nella mia carne, per essere un tutt’uno con me oltre ogni possibilità umana? Mi rendo conto che mi viene dato tutto perché lui stesso si dona al mio cuore, alla mia persona, perché io possa essere salvata dalla sua presenza in me? In quel momento ho intuito questo: non portiamo la Comunione per fare qualcosa per Gesù (certo, per gratitudine cerchiamo di dare gratuitamente ciò che gratuitamente abbiamo ricevuto); portiamo la Comunione per contemplare il mistero di Cristo che incontra gli uomini, per contemplarlo nel suo essere per noi, per stare ai piedi della sua croce, il vertice del suo dono d’amore, con lui. Si potrebbe forse affermare che servire non è fare, ma lasciare a Dio la possibilità di rendersi più familiare a noi nell’amicizia, e incontrare gli altri uomini riconoscendoli come oggetto di questo stesso Amore.

Si può riconoscere, poi, che questo rapporto privilegiato con la Comunione può aiutare il nostro sguardo a farsi più vero anche nelle minute pieghe delle nostre giornate. Più precisamente, può aiutare la preghiera e il lavoro a cambiare, a crescere, a farsi più essenziale. Alle volte, infatti, mentre lavoro, mi viene in mente questo ministero: il privilegio di essere parte dell’amore con cui Gesù si dona a ogni uomo, uno per uno, così come siamo, senza pretendere nulla in cambio, se non di essere accolto in noi. E così, nei nostri incontri quotidiani – in ogni ambito, anche lavorativo –, possiamo chiedere che la nostra vita, i nostri occhi e il nostro cuore, possano amare Cristo nell’altro, pur nell’inevitabile fragilità della nostra condizione umana, riconoscendo in ogni persona la voce di Cristo che ci chiede di amarlo e di farci servi inutili ma chiamati a donare l’amore immeritatamente ricevuto.

Ecco quindi che questo ministero, immenso e ancora tutto da scoprire, si configura anche come possibilità di una grande educazione a vivere solo contemplando e mendicando la presenza di Gesù dentro tutte le creature. È forse questa, dunque, la grande promessa: sperimentare come Cristo desidera tenerci sempre più vicini alla sua stessa vita, lasciando che sia lui e renderci familiari a sé, suoi amici, ora e per sempre.

Maria Segato – Parrocchia di Altichiero

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“Piccoli” di fronte alle grazie di Dio

Proprio nel mese in cui le preghiere alla Madre di Dio ci portano a lei con l’affetto più caldo, ha senso meditare una considerazione di Romano Guardini: «Non si può vietare a qualcuno di aver più gusto per una devozione privata che per la freddezza aspra dell’ufficio della Messa. Ma egli non può dire che la Liturgia è priva di vita, rigida, poiché egli stesso non riesce ancora a padroneggiare con l’animo queste forme ampie e forti. […] Dobbiamo renderci conto di quanto profondamente siamo ancora radicati nell’individualismo e nel soggettivismo, di quanto siamo disabituati al richiamo delle grandezze e di quanto sia piccola la misura della nostra vita religiosa. Deve risvegliarsi il senso dello stile grande nella preghiera, la volontà di coinvolgere anche in essa la nostra esistenza. Ma la via verso queste mete è la disciplina, la rinuncia a una sentimentalità morbida; un serio lavoro, svolto in obbedienza alla Chiesa, in rapporto al nostro essere e al nostro comportamento religioso». Lo scriveva in Formazione liturgica e intendeva dire la grandezza dell’amore cristiano: esattamente quello che ci vuole “piccoli”, adoranti di fronte alle grazie che Dio ci dona. È un amore che vince l’egoismo, si slancia verso il prossimo, trova pace nell’obbedienza. Guardini lo vedeva minacciato dall’individualismo, che i progressi della tecnica e le correnti filosofiche del tempo rendevano prepotente. Lusingato da un’illusoria autonomia, ripiegato su se stesso, l’uomo perdeva la vocazione a lodare e servire il Signore, smarrendosi in un autocompiacimento tanto accattivante quanto sterile.

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Punto dopo punto teologia e Scrittura prendono forma

Le suore missionarie francescane di Maria hanno cucito un capolavoro dell’arte capace di stare accanto a opere di Bellini e Tintoretto rubando loro la meraviglia. È una pianeta ricamata per san Pio X, esposta in una sala della mostra “La Maddalena e la Croce”, che rimarrà aperta fino al 13 luglio al Museo di Santa Caterina di Treviso.

Ovviamente ai piedi della croce c’è lei, l’apostola degli apostoli, che piange con il viso nascosto tra le mani. Un angelo vestito di violetto regge la scritta “Consummatum est”, mentre il suo compagno raccoglie in un ampio calice le gocce di sangue che escono dalle ferite del Signore. Il Figlio di Dio, caduto nella morte come in un sonno di indicibile tranquillità, è re e centro dell’opera. La catena degli angeli ritaglia una mandorla nell’oro dello sfondo e Gesù è di una bellezza radiosa e mite, il corpo perfettamente obbediente a una logica che è lui stesso e che gli uomini intravvedono solo in mezzo alle nubi dell’inquietudine. Il fiotto che sgorga dal suo costato è pieno di teologia e di Scrittura: una treccia di rosa e di bianco, sangue e acqua, che un altro calice, in mano all’angelo più giovane di tutti, beve per l’eternità.

Punto dopo punto, l’arte fa sì che ogni creatura intorno al Creatore abbia un’emozione leggibile sul viso. La Madre di Dio, in piedi a mani giunte, incapace di lasciarsi distrarre dai dubbi. Giovanni, che già sa contemplare il sangue raccolto nel calice e non più il volto umano del Signore. Il centurione caduto in ginocchio. Le donne impaurite e attratte da quel trionfo davanti a cui il mondo non può che provare imbarazzo. I tre soldatacci che si giocano ai dadi la tunica di Gesù, reliquia che ha custodito il mistero del Dio fatto carne. Il peggiore: il sacerdote che si volta sdegnoso a braccia conserte, come uno che ha liquidato un concorrente neanche degno di essergli messo a paragone.

Un sacro anonimato protegge l’identità delle artiste che hanno ricamato questo capolavoro perché il Santo Padre potesse celebrare degnamente la Liturgia. Per loro ci dev’essere solo il nome di figlie.

Anna Valerio

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Una veste è comune a tutti i ministri

 

Non è tanto opportuno, nell’ambito della Liturgia, usare il termine “paramenti”; troppo forte l’assonanza con la mondana “parata”, il nesso con l’identificabilità di un grado, di un ruolo, con le mostrine, il costume di scena. Per celebrare non si usano “paramenti”, ma vesti, e una è comune a tutti i ministri di qualsiasi grado. Guardiamo l’accolito accanto all’altare: egli indossa l’alba bianca. Il candore di cui si ricopre il ministrante è lo stesso del camice per la santa Messa che porta il Sommo Pontefice, o su cui un diacono aggiunge la stola e la dalmatica, un presbitero la stola e la casula, un vescovo la stola, la casula, la mitria, il pastorale e, se arcivescovo, il pallio. La veste delle vesti, il fondamento di ogni altra, è quella del Battesimo, figura del candore del Risorto. Ecco perché sarebbe indispensabile tornare all’uso del bianco perfetto, abbandonando lanette e morbidi beige, lontani dal nitore della rinascita pasquale, e, al contempo, ricordare che una veste liturgica ha bisogno di essere spiegata ed è il corpo che la spiega. Un presbitero, un diacono, un vescovo sguarniti di una nobile gestualità rendono l’abito muto, inutile.

I ministri, nella Liturgia, si sopravvestono, perché ciò che compiono è escatologico: anticipa, nel segno, la Pasqua nella sua pienezza. Il loro compito è “trattare” con la Pasqua ed è essa stessa a rivestirli di luce. Tra le persone che daranno corpo ai ministeri battesimali, non si dovrà allora mancare di trovare anche chi si prenda cura della sacrestia e faccia in modo che le vesti siano sempre lavate, pulite, mantenute integre, provvedendo a metterle a posto e a cucirle o a farle cucire dove ci sono strappi.

Gianandrea Di Donna

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